I nostri ragazzi
tra alcol e sballo

È impossibile non passare per “tromboni” quando capita di parlare di nuove generazioni, quando si tenta - ovviamente senza riuscirci mai - di dire qualcosa di sensato sui nostri figli,sul cammino che stanno compiendo, sul loro essere così fortunatamente diversi dai padri e su quel loro desiderio così naturale di “ucciderci” (freudianamente parlando), di sfidare chi li ha preceduti, di fare se non di più e di meglio, almeno qualcosa di diverso. Si finisce sempre a parare sul terreno esausto dello scontro generazionale, a discettare dei bei tempi andati e di certe regole sacre che poi forse, esistevano ed esistono soltanto nella nostra fantasia. È un dato di fatto, però, che da qualche anno a questa parte - per restare ancorati alla cronaca - siano in aumento alcuni fenomeni che non hanno precedenti. Uno su tutti l’incremento del consumo di alcolici.

Lo dicono le statistiche, quelle delle associazioni che si occupano di prevenire questo tipo di fenomeno e quelle, più fredde e per questo più spaventose, degli ospedali. Il paziente è in coma etilico, ha tredici anni.

È una brutta tendenza, che si osserva, in città, da circa cinque, sei anni. Non c’è bisogno di frequentare discoteche: a chi voglia metterci il naso basteranno quattro passi sotto i portici di piazza Perretta al sabato pomeriggio. Vedere per credere.

A ogni nuova stagione ci si illude che sia colpa della congiuntura astrale, e che passerà. Ma non passa mai. Il che significa che probabilmente non si tratta di un caso. Sul banco degli imputati sono finiti un po’ tutti: noi genitori, che non sappiamo più educare i figli e che al bastone preferiamo la carota, di cui facciamo un uso indiscriminato, stravolti come siamo dalla vita che facciamo, dagli orari di lavoro, dalle paure del domani e che per questo finiamo per chiudere gli occhi sul presente, trovando più comodo opporre alle richieste dei ragazzi una sfilza di sì e mai mezzo no. Oppure i gestori dei locali, che - seguendo una moda che dilaga - lasciano entrare tutti gratis, salvo poi campare di consumazioni, riempiendo i clienti di cocktail a due euro, che se alla fine uno esce il sabato sera con venti euro, il saldo è il pronto soccorso, con la testa vuota, lo stomaco in fiamme e il mondo che gira.

Qualcuno ce l’ha anche con la scuola, come se poi potesse sostituirsi ai genitori, oppure con i social network, che accorciano le distanze e che consentono confidenze da “remoto”, senza gli imbarazzi del vis à vis, che bruciano le tappe, il senso dell’attesa e della scoperta, che accelerano la vita.

Pensate quello che vi pare, ma sappiate che là fuori, ogni volta che la città si affaccia sul weekend, carabinieri e polizia - anziché badare a inseguire i ladri che come sapete non mancano - devono sistematicamente organizzarsi per arginare l’onda dei mojito che sale silenziosa come certe tempeste tropicali pronte ad abbattersi con una violenza che è di volta in volta sempre più inaudita. «Mai visto niente di simile», raccontava ieri uno degli agenti che l’altra sera era in via Sant’Abbondio, ultima tappa, in ordine cronologico, dello tsunami alcolico che ci travolge tutti, figli e genitori. Non si spiega, non si comprende. Le sbornie, un tempo (eccolo, il “trombone”) erano sempre “memorabili”, nel senso che difficilmente ne avremmo perduto memoria. Oggi sono troppe per essere ricordate. Qualunque sociologo la butterebbe sul piano della perdita dei valori in una società amorfa che inverte i ruoli, che cancella i punti di riferimento, che toglie i parapetti all’ottovolante su cui si inseguono questi ragazzi. Forse è ora di fermarlo. Perché se Freud aveva ragione, siamo noi papà i predestinati al patibolo dei nostri figli. E non viceversa.

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