«La libertà di culto è integrazione»

Università Il tema al centro di un confronto organizzato all’Insubria: «Sbagliato barattare i diritti costituzionali»

L’integrazione possibile passa attraverso il riconoscimento della libertà religiosa: questa l’ipotesi di lavoro messa a tema all’Università dell’Insubria, in un confronto tra aspetti giuridici ed esperienze comasche organizzata dal Dipartimento di diritto, economia e culture con il Tavolo interfedi di Como.

La paura del fenomeno banlieue e il rischio di divisioni violente polarizzate da appartenenze religiose sono le ragioni di fondo per tante rigidità del sistema che, da un punto di vista giuridico, non ha ancora pienamente risolto la convivenza tra diverse confessioni religiose.

La garanzia di libertà di culto è sì concessa, ma solo in modo parziale e lacunoso. Il risultato è che si è demandato agli enti locali la gestione, di volta in volta, delle richieste di spazi, tempi, convivenze, finendo per creare situazioni paradossali e qualche ingiustizia.

«La libertà religiosa è invece strumento fondamentale per l’integrazione e l’integrazione è un fattore importante di coesione sociale e sicurezza – ha spiegato Alessandro Ferrari, professore di Diritto ecclesiastico e Diritto comparato delle religioni alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria – soprattutto nel momento in cui persone di religione differente dalla Cattolica si trovano in Italia e di loro l’Italia ha e avrà sempre più bisogno. Non c’è solo l’esigenza di mano d’opera, siamo in un’era di mobilità sociale per i più svariati motivi. Gli individui che arrivano sono persone che hanno specifiche identità culturali e per molti di loro l’identità religiosa è fondamentale».

Siamo in una società secolarizzata, dove la libertà religiosa si dà per scontata. «Nel contesto europeo i diritti costituzionali sono una caratteristica della nostra identità – prosegue Ferrari - è qualcosa che noi non barattiamo, non scambiamo, che riteniamo sia da garantire a tutti in quanto esseri umani. Ma nel momento in cui persone che vivono qui vedono che in realtà il loro diritto di libertà religiosa, quindi la garanzia di compiere atti di culto, sono in realtà resi difficili, poco dignitosi o addirittura impossibili, si invia un messaggio contraddittorio rispetto ai valori costituzionali. Si crea l’idea che, al di là della nostra promessa di liberà, siamo i primi a non volere l’integrazione».

In Italia partiamo avvantaggiati: abbiamo la capacità, per storia e necessità, di dialogare con le differenti tradizioni religiose. Il nostro Paese è abituato alla presenza pubblica dell’aspetto religioso e conosce anche il valore del capitale sociale religioso.

«Proprio per questo non dovremmo trascurare questa nostra capacità – prosegue Alessandro Ferrari - perché il dialogo tra le religioni ha una ricaduta sociale positiva che però spesso i poteri pubblici non colgono o non favoriscono. Per esempio nel caso della scuola di Pioltello solo la Cei, rispetto alle diverse posizioni politiche, ha correttamente citato il principio di laicità e l’accordo costituzionale che definisce il pluralismo confessionale. La nostra storia culturale e anche la nostra storia costituzionale hanno tanti strumenti che potrebbero servire per un’integrazione e per evitare la costruzione di ghetti, con le conseguenze di pericolo e insicurezza che conosciamo».

L’ipotesi è di collaborare per l’individuazione di luoghi di culto riconosciuti perché diventino parte del tessuto cittadino, in questo modo è possibile far nascere anche una responsabilità personale nella loro gestione. Se si concede un diritto si ha anche modo di chiedere conto di doveri.

«Al contrario se si confina a una sorta di clandestinità o di irrilevanza sociale l’esercizio della pratica religiosa, non nasce un senso di corresponsabilità, di bene comune – è la valutazione di Ferrari – mentre se si vuole il bene comune, traducibile anche in termini di sicurezza sociale, vanno valorizzate tutte le occasioni di compartecipazione e scambio». Che non è condivisione, accettazione compiaciuta, come si è visto nelle manifestazioni nelle università degli Stati Uniti pro Palestina simulare la preghiera islamica, ma senza comprenderla e senza reale appartenenza.

«In questo scenario complesso e mutevole, il diritto di libertà religiosa è fondamentale perché tocca l’identità, o meglio una delle identità primarie, dopo quella familiare – conclude lo studioso - ed è un’appartenenza molto importante che, se ben gestita, con trasparenza, onestà e reciprocità, produce un risultato sociale molto efficace sull’integrazione sociale».

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