Giusto così

Giusto così

Mentre venivo al lavoro, ieri, sono passato davanti a un cortile. Era insolitamente affollato, come mai mi era capitato di vederlo. Un affollamento da sabato, credo, quando la gente ha più tempo libero, anche per dedicarlo ai bambini. Questi ultimi giocavano: si inseguivano con le biciclette, facevano rimbalzare la palla e, nei momenti morti, si strillavano l’un l’altro nelle orecchie. Gli adulti chiacchieravano tra loro: un occhio al figlioletto, per assicurarsi che non andasse a sfracellarsi, un altro all’interlocutore, per dimostrargli di non essere sconnesso dalla conversazione.
Era tanto tempo che non vedevo un cortile così. In un certo senso, non ne avevo mai visti di cortili così, perché questo era un cortile del terzo millennio: per due terzi popolato da immigrati. E tuttavia era anche un cortile come, in passato, ne vedevo quasi tutti i giorni. Che fosse un cortile familiare me lo hanno confermato i bambini. Non perché io li abbia interrogati, non ne ho avuto bisogno. Dai giochi, dalle corse e dalle urla ho capito che, per loro, quel cortile rappresentava ciò che, per me, un altro cortile rappresentava in passato: un territorio, ovvero un composito sistema geografico, dove un muretto ha l’importanza di una catena montuosa, una fontanella l’impetuosità di una cascata e lo spiazzo centrale la vastità ostile di un deserto. Un territorio per il quale val la pena correre, gridare, lottare e, se il caso, piangere. Quanto a me, ho pensato: qual è, adesso, il mio ruolo nel cortile? Subito l’ho afferrato: quello del passante, sullo sfondo. Giusto così.

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