I bambini di François

Fa piacere che un po’ tutto il mondo si sia ricordato del regista cinematografico François Truffaut a trent’anni dalla morte. I siti dei giornali, in particolare, hanno scandagliato gli archivi alla ricerca di immagini che lo mostrassero nel pieno della vita: sul set, accanto alle bellissime attrici dei suoi film. Donne di cui quasi sempre si innamorava (molto spesso ricambiato). Basterà citare, tra le tante, Catherine Deneuve, Jacqueline Bisset, Isabelle Adjani e Fanny Ardant.

Non dico sia sbagliato ricordare Truffaut come magnifico corteggiatore, uomo innamorato, in parti uguali, dell’amore e del cinema. Dico solo che non basta e vorrei approfittare di questo angolo per celebrarlo anche come grande, grandissimo regista di bambini.

Due, almeno, i titoli da ricordare: “I quattrocento colpi” (1959) e “Gli anni in tasca” (1976). Ma a parte ricordare i film - un invito a rivederli appena possibile - è bello ricordare perché Truffaut, caso quasi unico, fosse così bravo a dirigere i bambini e a raccontare storie che li riguardano.

Allo scopo, ci soccorre un testo che egli scrisse a commento dei “Quattrocento colpi”, la pellicola che, vincendo a Cannes, lo consacrò come autore. Mi piace citarlo perché parla di bambini e di storie. C’è bisogno d’altro?

«Credo che spesso i film sull’infanzia non siano riusciti per due ragioni. Prima di tutto, il bambino il più delle volte non è veramente protagonista... L’errore più grave è quello di voler essere poetici “a priori”. È così che si fanno film sui palloncini rossi, i cavalli bianchi o gli aquiloni, ma non sui bambini. Bisogna sempre ricordarsi che il bambino è un soggetto patetico a priori, un soggetto cui il pubblico è molto sensibile. Perciò bisogna badare a non essere mai leziosi o compiacenti. Questa è una delle ragioni per cui ho impedito a Jean-Pierre Léaud (il protagonista del film, ndr) di sorridere. Più la materia è commovente, meno bisogna cercare di commuovere».

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