Il re dell’insulto

Non scriverò di razzi e armi chimiche perché, a far da irritante contrasto all’improvviso clima da crisi cubana calato sul globo, già c’è l’insopportabile cinguettio delle opinioni che, volendo essere precisi ma purtroppo necessariamente volgari, bisognerebbe mettere in stretta relazione con l’organo sessuale maschile. Ci sono i comunicati ufficiali, le reazioni di cuore e panza e, soprattutto, quelle dei dietrologi: non hanno prove ma, tanto per farsi notare, dicono il contrario. Purtroppo, anche a voler evitare l’argomento bellico, non è che ci sia da divertirsi. Rimane semmai il rimpianto per giorni e tempi che vanno scomparendo, insieme ai protagonisti che li hanno rappresentati.

È di appena due giorni fa, per esempio, la notizia della morte, a 90 anni, del comico americano Don Rickles. Un nome che al pubblico italiano potrebbe non dir molto (lo si ricorderà per una parte drammatica in “Casino” di Scorsese) ma che in patria era assurto allo status di leggenda. Questo anche per l’impronta originale della sua comicità, che non era fatta di arguzie e battute ma di insulti. Rickles piombava sul pubblico come un ciclone e insultava tutti in generale e ciascuno in particolare. Ad alimentare le sue abrasive osservazioni soprattutto gli stereotipi razziali. Gli italiani? “Servono a dar lavoro ai poliziotti”. I neri? “Senza di loro, come ci arriverebbe il cotone in farmacia?” Bersaglio prediletto anche il suo stesso circolo etnico-sociale: gli ebrei americani.

Un meccanismo comico oggi portato sulle secche dal politicamente corretto ma che anche in passato si offriva alla critica e allo sdegno. Eppure da Rickles il pubblico accettava tutto perché intuiva in lui un sincero e istintivo amore per la gente comune, per l’uomo della strada che, sotto i suoi motteggi, finiva per sentirsi riconosciuto e in qualche modo riscattato. Ora che è morto si esaurisce una fonte di umoristica franchezza. Cosa resti non è chiaro, ma basta tornare alle notizie importanti per trovarci sicuramente troppa ipocrisia.

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