La retorica del Kalashnikov

mentre negli Stati Uniti si discute, si litiga e non di rado ci si prende a mazzate per l’eliminazione dei monumenti che ancora celebrano un pezzo di Storia - quello della Confederazione schiavista -, i russi non sembrano aver problemi nell’elevare una statua a un eroe nazionale che sulle prime potrebbe sembrare discutibile: Mikhail Kalashnikov.

L’avrete già capito: non si tratta dell’inventore di un frullatore. A portare il nome Kalashnikov è un fucile d’assalto noto anche con il nome tecnico di Ak-47. Non c’è modo di sapere quanti morti ammazzati abbia fatto l’Ak-47 dal 1949 a oggi, ma sono certamente tanti. Il fucile è stato impiegato in guerre ufficiali, in guerriglie sparse e in altri ammazzamenti diciamo così informali, per i quali non era obbligatoria né la mimetica né la cravatta nera. Tra i tanti morti fatti dal micidiale arnese non c’è il suo inventore, deceduto a 94 anni , evidentemente sempre attento a trovarsi dal lato giusto della sua creazione.

Ora la Russia lo celebra come “eroe” in un programma, ci spiegano, di «ridefinizione dell’identità nazionale» che, evidentemente, non disdegna di guardare indietro all’Unione sovietica: la bandiera che Kalashnikov intendeva difendere con il suo schioppo. Forse sarebbe il caso di trarre da tutto ciò una seriosa morale sulla non troppo nascosta aggressività della Russia di Putin. Io però non ci riesco: la retorica dei monumenti con me ha sempre fatto cilecca. Perfino quella del Kalashnikov.

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