Ma quale morte

Non posso dire di essere dispiaciuto per la morte di Gabriel García Márquez. I suoi libri, quelli almeno che posseggo, ieri mattina erano ancora lì, sullo scaffale. Mi dispiace, naturalmente, in quanto essere umano, che i suoi famigliari e i suoi amici debbano soffrire per un vuoto personale . Io, in quanto lettore, non ho il diritto di definirmi altrettanto orbato: con i suoi libri, García Márquez ha infatti adempiuto al compito assegnato a ogni grande scrittore, quello di sorpassare la morte in virtù di una testimonianza intellettuale particolarmente intensa e meritevole di ripetuto ascolto.

Forse, la mia mancanza di dolore è dovuta anche al fatto che, per formazione e abitudini di lettura, non sento gli autori sudamericani particolarmente vicini, con la sola eccezione di Guimarães Rosa e del primo Vargas Llosa. Ma questa, in fondo, è solo una ragione in più per guardare al distacco tra autore – mortale quanto mortale è il suo corpo – e opera - immortale quanto immortale riesce a essere il suo valore letterario – con la giusta obiettività. “Cent’anni di solitudine” - libro amatissimo ovunque – è certamente la controprova che, lungi dal costringerci a piangerlo, García Márquez è riuscito a vivere a dispetto della cedevolezza dimostrata, dopo 87 anni, dal suo organismo. Mi sembra insomma un po’ ingiusto, quasi irrispettoso, piangere un uomo dopo che, grazie alla sua immaginazione, al suo talento e alla sua disciplina artistica, ha conquistato il diritto a perpetuarsi, tramite l’eco vitale rimandata dai suoi personaggi, ben oltre la morte fisica. Non tutti riescono a fare altrettanto ed è a loro che, forse, meglio diretto sarebbe il nostro dolore. La morte di García Márquez corrisponde invece alla continuazione, ostinata, di un sentimento che mi fa venire in mente la chiusura di uno dei suoi romanzi, “L’amore ai tempi del colera”: «“Fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del c...o?” gli domandò. Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni sette mesi e undici giorni, notti comprese. “Per tutta la vita” disse».

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