Non importa quale programma. Ma che sia strategico

La formazione di ogni nuovo governo porta con sé alcune parole, sempre quelle, che vengono spacchettate per l’occasione, come a Natale le figurine del presepe. Non ci sarà bisogno di spolverarle, perché di governi da queste parti se ne formano spesso e il pericolo che tali parole rimangano in deposito troppo a lungo non ci sfiora mai.

Una di queste parole è «consultazione», sempre declinata al plurale, perché ovviamente sono più d’una, anzi sono proprio tante; in questo Paese due cose non mancano: le auto parcheggiate sulle strisce e i partiti da consultare. Ma anche altre parole concorrono felici e obbedienti alla formazione di ogni nuovo esecutivo: «incarico», «alleanza», «verifica», «totoministri», «appoggio», «coesione» e «trattativa».

Personalmente, mi trovo abbastanza a mio agio con tutti questi termini, nel senso che il loro significato, magari per linee generali, mi è chiaro A volte, ho l’impressione che le parti impegnate nella «trattativa» non possiedano, loro, una perfetta conoscenza del contenuto semantico di quei termini, almeno di alcuni di essi, perché spesso li affermano come propri per poi dimostrare, nelle azioni, di essere più interessati all’esatto contrario.

Comunque sia, le parole che ho elencato più sopra mi sono più o meno familiari. Ce n’è una, però, sulla quale finisco sempre per lambiccarmi il cervello e per concludere che dopo tanti anni, e quasi altrettante crisi di governo, ancora non so che cosa vuol dire, perlomeno non quando è applicata alla politica. La parola è «strategico».

Sottolineo che a confondermi è l’aggettivo e non il sostantivo: «strategico», dunque, e non «strategia». È infatti l’accostamento di questa qualificazione a un ancoraggio che si vorrebbe fondamentale all’azione di governo a creare confusione. È il programma di governo, appunto, che si vuole «strategico», sono le priorità amministrative che dovranno essere «strategiche» e «strategico» come non mai s’impone sia il calendario, altrimenti non stiamo neanche qui a parlarne.

Secondo la Treccani, l’aggettivo «strategico», dopo aver fatto un sacco di cose utili in relazione alla guerra, si occupa di politica quando va a definire ciò «che è accortamente diretto al raggiungimento di un determinato scopo». Vorrei sbagliare, ma credo di incominciare a capire perché questo nobilissimo aggettivo, quando impiegato in politica,prende a comportarsi da cialtrone, da testimone omertoso, da accompagnatore insipiente.

La ragione è che in politica nulla è «determinato» in partenza (e non di rado neppure all’arrivo) e per quanto riguarda lo «scopo», solo gli ingenui cittadini possono presumere che ce ne sia uno e uno soltanto. In questa situazione precaria, l’aggettivo «strategico» perde quasi del tutto il suo significato, e viene impiegato solo per fare bella figura. Lui, che ha una reputazione di rettitudine e coraggio guadagnata sui campi di battaglia perfino quando accostato alla parola «ritirata», se ne sta lì impettito in alta uniforme, come fosse un corazziere aggiunto, ad assicurare al Paese che la pompa è garantita, la serietà assicurata e l’intelligenza programmatrice impiegata a piena capacità. Tutto questo senza dire nulla, impegnarsi su nulla, rischiare nulla.

A volte si pensa che certe persone non dicano un tubo ma lo dicano bene. Niente affatto: è che il loro dire è troppo «strategico» per le nostre orecchie.

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