Qualcosa da dire

Non viviamo, purtroppo, in tempi ricchi abbondanti di tesori. Bauli colmi di gioielli e dobloni sepolti a quattordici passi dalla palma in direzione dell’ombra proiettata al tramonto sotto uno scheletro di tartaruga non se ne trovano più. Mancano anche i luoghi indicati ai ritrovamenti: isole caraibiche elette a riserve di pirati ce ne sono sempre meno e là dove facevano congrega i bucanieri, prende il sole il contenuto di un volo low cost proveniente da Orio al Serio. Nessuna speranza, dunque? Non proprio: le librerie regalano qualche volta tesori perfino più preziosi.

È il caso de “La signorina Cormon”, un testo del 1836 di Honoré de Balzac stampato da Sellerio nella prima traduzione italiana. Pagine in cui ci viene consegnato - restituito? - il tesoro di una narrazione alta, semplice e profondissima insieme. Il ritratto di una zitella di provincia diventa così il mondo, e il mondo l’umanità e l’umanità il sorriso.

Leggiamo, quasi a caso:

«La signorina Cormon considerava la conversazione uno dei suoi principali doveri: non che fosse una chiacchierona, mancava disgraziatamente di idee, e conosceva troppo pochi giri di frase per sostenere un discorso; però in questo modo credeva di conformarsi ad uno degli obblighi sociali prescritti dalla religione, che ci ordina di essere cortesi verso il prossimo. Tanto le costava un simile impegno da indurla a consigliarsi, su questo problema puerile e onesto di buone maniere, col suo direttore spirituale, il reverendo Coutourier. Malgrado l’umile osservazione della penitente, che gli confessava il rovello interiore al quale si sottoponeva nello sforzo di trovare qualcosa da dire, il vecchio prete, tanto rigoroso in materia di cilicio, le aveva letto un intero passo di San Francesco di Sales sui doveri della donna in società, sulla pudica allegria delle pie credenti che dovevano riservare la severità a se stesse e mostrarsi amabili in casa propria e fare in modo che il prossimo non vi si annoiasse mai».

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