Questo Paese

Dicono sempre: «Questo Paese». Mai «il Paese». Oppure «l’Italia». Meno che mai «la Nazione»: chissà, forse suona troppo ottocentesco.

Dicono «questo Paese» con tono tra l’esausto e il paternalistico: «questo Paese» sottende «questo povero Paese» oppure «questo benedetto Paese». Stanchezza e frustrazione non impediscono loro di lanciare appelli: «Si unisca a noi chiunque voglia fare qualcosa per questo Paese» perché, infatti, loro sanno esattamente «di che cosa ha bisogno questo Paese».

È curioso notare come nelle interviste televisive, ma anche nei rendiconti dei giornali, l’espressione ricorra tanto spesso. Non c’è Paese senza «questo», perché deve essere chiaro che il Paese di cui parla è questo qui, quello presente, nello stato - povero e benedetto - in cui l’ha raccolto, suo malgrado, chi si propone di salvarlo.

Non occorre precisare che chi dice «questo Paese» lo fa senza pensare a tutto ciò che ho appena scritto: si limita a fare uso di una delle tante espressioni automatiche che ormai riempiono il nostro modo di parlare. Per istinto, il politico, ma anche il commentatore nel suo habitat - davanti a un microfono - dice «questo Paese» nella certezza che tanto basterà a segnalarlo per qualcuno che vuole partecipare, contribuire e, soprattutto, rimediare: la perfetta maschera del taumaturgo democratico.

Qualcuno, non originale ma forse più sfacciato, adotta la variante «nostro Paese». Questa contiene un accorato appello all’unità: implica che «questo Paese» non soltanto è «povero» e «benedetto» ma anche «diviso», cosa brutta, si sa, perché «così non si va da nessuna parte». Si dovrebbe invece andare dalla sua, di parte, che lui sostiene essere «nostra», convinto evidentemente di fare l’interesse di tutti. L’uso di «questo» e «nostro», si sarà capito, accende il mio sospetto. Forse perché so già che il Paese è questo è che non è né mio né tuo ma nostro. Chi ha bisogno di ripeterlo, è perché deve ricordarlo a se stesso.

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