Sorpresa: protestare qualche volta serve

E così scopriamo che protestare qualche volta serve. Accade a Hong Kong, metropoli autonoma della Cina popolare, 7,5 milioni di abitanti, dove  la signora Carrie Lam, chief executive della città (sorta di sindaco-presidente del consiglio di amministrazione, nonché referente del governo centrale di Pechino) ha fatto marcia indietro dopo che milioni di persone le hanno dato misura del “gradimento”, presso il popolino, del suo progetto di legge per l’estradizione.

In una conferenza stampa, la signora ha annunciato la sospensione a tempo indeterminato del progetto. Non solo, ha promesso che il suo governo, d’ora in poi, si impegnerà ad allacciare un rapporto aperto con la società civile: «Cercheremo di spiegare meglio le nostre iniziative - ha detto - soprattutto, vogliamo ascoltare di più quel che la città ha da dirci».

Difficile dare la misura dell’effettiva onestà di queste parole - il potere, in qualche misura, non è mai completamente onesto -, ma certo hanno colpito chi, nelle scorse settimane, ha seguito il teso braccio di ferro che ha coinvolto dapprima le forze politiche della città (attive in un sistema comunque non completamente democratico), per poi trasferirsi in strada: manifestazione oceanica e scontri con la polizia da parte di manifestanti decisi a far sentire il proprio desiderio di libertà e autonomia in presenza di un’ombra, quella dell’autorità centrale cinese, sempre più incombente.

La legge sull’estradizione, spinta dall’esecutivo di Carrie Lam sull’onda dell’occasione-pretesto di un delitto commesso a Taiwan da un cittadino di Hong Kong ai danni di una cittadina di Hong Kong, avrebbe di fatto garantito a Pechino il diritto di “pescare” nel territorio autonomo qualunque soggetto di suo interesse - criminali ma anche dissidenti - per poi processarlo nei suoi tribunali e detenerlo nelle sue prigioni. Un passo avanti verso l’omologazione di Hong Kong al resto della Cina, una minaccia alle sue tradizioni liberali, una mossa in direzione del “controllo totale” che la Repubblica popolare già esercita sui suoi cittadini.

Un milione di persone, per la gran parte di giovane quando non giovanissima età, si è invece schierato per la democrazia e, in fondo, per ciò che noi chiamiamo, non di rado con disprezzo, “garantismo”.

Diciamolo chiaramente: scendere in piazza per protestare, sia pur indirettamente, contro il governo cinese è molto più rischioso che andare a fare le pernacchie sotto le finestre di Matteo Salvini o davanti alla portineria di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Per quanto duri siano gli scontri tra manifestanti e polizia nelle piazze europee, i pericoli corsi dai giovani di Hong Kong, nel mettersi di traverso davanti a un’autorità che, 30 anni dopo, ancora rifiuta di prendersi la responsabilità di Tienanmen, sono molto più gravi. Forse dovremmo pensarci, quando ogni giorno facciamo della democrazia una barzelletta, delle proteste una scampagnata, dell’indignazione un post su Facebook e, nel chiedere giustizia e sicurezza, ci scagliamo sempre e solo contro chi è più debole. Hong Kong ha dimostrato che protestare serve e che quando la protesta è seria non bisogna avere paura di nessuno. Ma seri e coraggiosi, forse, noi non lo siamo più.

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