Nove Colli: bene, bravo. E ora il tris

Togliamocelo subito, il dente. Ebbene sì, Davide Cassani ha fatto molto meglio di me. E’ partito prima, è arrivato prima e, quando io ho intravisto lo striscione d’arrivo, probabilmente lui aveva già fatto la doccia. Sarebbe stato curioso il contrario, del resto, visto che il commissario tecnico della nazionale è stato un grande del ciclismo professionistico e tuttora vanta fiato e gambe di assoluta eccellenza. Ma su una cosa non ci piove. Potrò sempre dire di avere corso con Cassani. C’è qualcun altro, nei dintorni?

Oddio, oltre a lui – alla Nove Colli di Cesenatico, la regina delle Gran Fondo europee  – c’erano altri 11.999 amatori ma poco importa. Per il secondo anno consecutivo, ve lo avevo preannunciato nell’ultimo blog, ho partecipato a questa colossale festa del ciclismo. Ultimo tra gli ultimi, certo. Portacolori e bandiera dell’Us Pipponi, d’accordo. Ma pur sempre in grado di affrontare i 138 chilometri del percorso corto  (lo chiamano short track e non è dialetto romagnolo) che è pur sempre una fatica lunga. Tutto tronfio del mio pettorale 2658, ho scaramanticamente ripetuto il rituale dello scorso anno. Ottanta chilometri il venerdì pomeriggio, con tanto di sopralluogo allo striscione di partenza e alla sede della Sc Fausto Coppi che organizza la manifestazione; semiriposo il sabato (con l’unica eccezione di quaranta chilometri di pianura per tenere la gamba), fusilli in bianco con il mio amico Stefano Giuliodori la sera, sveglia alle 3.35 del mattino della domenica, colazione alle 4.00, partenza alle 4.30 verso Cesenatico. E anche quest’anno, messaggino alla moglie dalla griglia di partenza, alle 5.33 con assonnata risposta beneaugurante direttamente dal letto dell’hotel Dory di Riccione che – come sempre – è il mio quartier generale, ciclista tra ciclisti che più ciclisti non si può.

Il resto è cronaca. Ma una cronaca particolare, tutta mia e che non troverete su nessun giornale. Fatta di sensazioni e di fatica, del rumore dei pedali che girano all’impazzata (almeno nei primi venti chilometri di pianura) e che è rotto soltanto dall’applaudire convinto degli abitanti dei paesini attraversati. E, ancora, il meraviglioso panorama degli Appennini che si avvicinano, delle colline che si rincorrono a perdita d’occhio senza vedere in lontananza neppure lo straccio di un condominio. La Romagna autentica, su per Forlimpopoli, per la Polenta, per il Ciola, per Mercato Saraceno, per Savignano, per il mitico Barbotto. Già, il Barbotto. Una scalata di una manciata di chilometri con un chilometro fisso al 18 per cento di pendenza ma che diventa l’Everest se viene fatta – come tocca a noi tapini – dopo 90 chilometri di corsa e una quantità industriale di sudore lasciato sull’asfalto. Ma non importa, perché quel chilometro è una specie di passerella tra le transenne, gli spettatori che (incredibilmente) ti applaudono anche se hai la lingua per terra, il tendone del ristoro dove c’è il buontempone che prova a offrirti il panino con la salamella. Trovando pure il finlandese di turno (ci sono anche loro) che accetta di buon grado.

E poi l’arrivo. Quei cinquecento metri sul lungomare che non finiranno mai di stupirmi. Che siano le 11, come nel mio caso, o le 19 (l’ultimo transitato), c’è sempre gente che batte le mani sinceramente ammirata (o, almeno, così mi piace credere), c’è sempre un “bravo” di troppo, un immeritato incoraggiamento. E, per chi sta in bicicletta, c’è soprattutto un groppo alla gola del tutto sproporzionato rispetto alla prestazione (che avrebbero mai dovuto dire  quei poveretti sul Gavia sotto la neve?)  ma che rappresenta l’essenza stessa del ciclismo senza se e senza ma. In quei cinquecento metri c’è l’orgoglio, la soddisfazione, la gioia più pura e più disinteressata. E vorresti che quel tratto di strada non finisse mai.

Invece finisce. C’è il grande buffet, con il prototipo della signora romagnola che vuole a tutti i costi farti mangiare un piatto di tortellini – quelli veri, mica quelli dei supermercati – del tutto incurante del fatto che dallo stomaco sale soltanto una grande nausea. Un incanto, bruscamente interrotto dal fanatico di turno che ti avvicina soltanto per dirti: “Ma l’hai fatto il tempo?”. E tu sei lì, che gli guardi la pancetta e i muscoli inflacciditi dall’età e della fatica e ti verrebbe voglia di regalargli un prontuario del “vaffanculismo” grilliano. Poi ci ripensi, lo guardi di traverso e ti limiti a dirgli che il cielo, quando finisci quella corsa lì, è sempre più blu.

[email protected]

© RIPRODUZIONE RISERVATA