Como, dal vecchio cappone al pesce
Le tradizioni perdute del Natale

Il confronto tra il “cibo sacro” dell’infanzia di Luoni e le tavole moderne dei comaschi

Lo chef Chessorti: «Alcuni piatti resistono, ma negli anni molte cose sono cambiate»

Como

«Viene in mente che è il giallo il colore del Natale nostrano: il giallo della polenta, il giallo del ventre del panettone, e alla sera il giallo del risotto allo zafferano...». Così, ieri, scriveva Basilio Luoni su L’Ordine, raccontando il Natale in tavola dei lezzenesi e dei comaschi, a base di busecca, qualche fetta di salame, di galli ripieni e di polenta gialla, «compatta, da tagliere a fette con un filo di spago».

Cosa resta oggi delle tradizioni gastronomiche legate a quelle ricette povere eppure sacre, così intimamente legate al nostro territorio almeno fino al secondo dopoguerra? «In realtà molte tradizioni sono cambiate», dice Cesare Chessorti, presidente dell’Associazione cuochi, una vita al casinò di Campione, uno chef che alle tradizioni locali ha legato gran parte della sua attività, profondendo grandi energie, negli ultimi anni, nel rilancio, per esempio, della “comaschissima” fiera di Sant’Abbondio: «È stato soprattutto il pesce a cambiare il nostro modo di sederci a tavola per il Natale... Fino agli successivi al Secondo dopoguerra era davvero raro, se non forse in qualche località del lago». Ai comaschi piace tener fede alle tradizioni, così molti piatti resistono spesso soltanto grazie alle nonne. Come nel caso degli animali da cortile, galline, capponi, conigli: «Il vitello era roba per gente ricca», conviene Chessorti, tanto che i tagli migliori - per citare ancora Luoni - «finivano dirottati (da Lezzeno) a Cernobbio dove c’era una clientela abbiente».

«Ma la tradizione che più di altre resiste al tempo» spiega ancora lo chef.

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