I ricordi comaschi
del grande Aldo Buzzi

I Plinii, il Duomo, la città e le sue sfumature: tanti i riferimenti lariani negli scritti del narratore-dirigente editoriale, ma anche uomo di cinema, morto a 99 anni ai primi di ottobre. Ne scrive per noi Alberto Longatti, che lo conobbe personalmente.

di Alberto Longatti

Nei risvolti di copertina dei suoi libri editi da Ponte alle Grazie, Aldo Buzzi, scomparso nei giorni scorsi alla venerabile età di 99 anni, veniva presentato come un comasco doc, originario «della città di Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane». Il motivo di quella precisazione storica me la diede lui stesso, quando lo conobbi anni fa in casa di Bruno Munari, a Milano. Ai Plinii era affezionato da sempre, almeno da quando aveva capito chi erano quei personaggi dai libri di testo ginnasiali, al Liceo Volta. Buzzi era nato a Como, in via Garovaglio («proprio dietro il Duomo») e quando usciva dalla sua abitazione, la mattina, non mancava mai di dare uno sguardo, con rispettosa ammirazione, alla massa verdeggiante del monte di Brunate che gli pareva incombesse sulla città, illeggiadrito da «un volo di rondini nere». Figlio di una pittrice tedesca e di un chimico costretto a spostarsi spesso per esigenze di lavoro, ha vissuto a Como fino a sei anni, poi a Sondrio e infine a Cernobbio durante i due anni di ginnasio, per seguire infine stabilmente la famiglia a Milano. Racconta in "La lattuga di Boston", edito nel 2000, che da Cernobbio veniva a Como in tram e a mezzogiorno restava a pranzare in casa di un barbiere anarchico, «uomo onesto e mitissimo» che finiva regolarmente in galera quando qualche politico importante transitava nei luoghi lariani, e là dentro continuava a fare il suo mestiere, radendo carcerati o secondini e simpatizzando con tutti. Quell’innocuo libertario era diventato per lui quasi un simbolo, l’icona educativa della sua adolescenza. La sua forma di dignitosa anarchia, che era in realtà una fuga dalle convenzioni sociali e una tollerante filosofia esistenziale, gli era entrata nel sangue, aveva guidato pensieri, azioni, gesti, la scrittura stessa che non conosceva regole precise, ma serpeggiava sulla pagina, seguiva il filo di capricciosi ragionamenti, si interrompeva coagulandosi in improvvise illuminazioni aforistiche. Una scrittura apparentemente casuale, mentre invece era frutto di una continua rielaborazione, con minime varianti da una versione all’altra. Giustamente qualcuno ha osservato che apparteneva alla categoria degli scrittori che scrivono senza averne l’aria, come se buttassero sulla carta le meditazioni del momento: o se registrassero discorsi a bassa voce, trasformandoli in parole scritte. Parole che quasi sempre erano testimonianze di esperienze, di sensazioni colte dovunque si fosse trovato, come se la vita fosse un perenne viaggio, a contatto con le cose e le persone. Oppure un più tranquillo colloquio con se stesso, alla ricerca di ricordi conservati nell’intimo. Nel tessuto discontinuo di quei bizzarri, talora paradossali resoconti di cose vissute che sono i suoi piccoli, densi racconti, le immagini lariane compaiono quando uno meno se l’aspetta. Non fantasmi lontani, ma frammenti di una realtà sempre presente, ritrovabile se uno la richiama confidenzialmente, sapendo di averla guardata a lungo, da vicino. Per esempio, riprendendo daccapo ciò che dicevamo all’inizio, i podi dei due Plinii appesi sulla fronte della cattedrale comasca. C’è un passo, in uno dei suoi pseudodiari, che li riguarda. Dice che passando davanti alle due statue c’è da sorprendersi, perchè, sono parole sue, «il Vecchio appare piuttosto giovane, il suo viso non ha niente di romano, potrebbe essere un anglosassone». E qui scatta il paradosso, scocca la scintilla d’ironia. «Anzi, il ginocchio sinistro del Vecchio che sporge in fuori nudo, con il magro polpaccio ricoperto da uno stivale romano di fantasia che sembra un calzettone, lo rende simile ad uno scozzese che stringe fra le dita della mano destra un invisibile bicchiere di scotch». Per curiosità, sono andato a controllare quanto di vero ci fosse in questa ardita attribuzione e non la conseguenza di un azzardato confronto fra costumi e popoli diversi. Perbacco, la faccenda dello scozzese trapiantato in un romano antico non era poi così assurda. In fondo, è un espediente da navigato viaggiatore, che non si limita a muoversi nello spazio ma fa un uso illimitato del tempo. Così, accennando all’esistenza di una terza edicola sul fianco meridionale del Duomo comasco, si chiede come mai sia stato dedicato ad un poeta Cecilio, amico di Catullo, pressoché sconosciuto. E poi si risponde che la ragione c’è: dato che frequentava Catullo, «difficilmente un buon poeta è amico di uno cattivo». E soggiunge: «Anche noi, del resto, riteniamo di valere qualcosa se siamo amici di qualcuno che vale». Questo era Aldo Buzzi, un uomo che aveva soggiornato in tanti Paesi, Inghilterra, Jugoslavia, Stati Uniti e chissà quanti ancora, ma rimaneva sempre se stesso, conservando di città e campagne, di fattorie o di alberghi, di bar e di strade, un tratto da aggiungere alla sua fisionomia di viaggiatore nel tempo e nello spazio. Un globetrotter tuttavia, come in un racconto di Chesterton, che non ripudiava casa sua, compiendo ogni volta un percorso a circuito chiuso. Gli domandai, durante il breve incontro nell’abitazione di Munari, che sorrideva indulgente alle uscite dell’amico, se tornasse a Como, di tanto in tanto, magari per rinfrescarsi la memoria. Ma io a Como ci sono rimasto, mi rispose senza indugio. «I luoghi dove abbiamo vissuto sono parte di noi, non ci lasciano mai».

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