«Con realismo e pazienza
Francesco parla a tutti»

Il vaticanista del Tg1 Aldo Maria Valli traccia in questa intervista un profilo del Papa: «Il segreto della sua azione sta nella semplicità e nella credibilità. In più, conosce i problemi della gente»

Un Papa empatico e realista. Potrebbe riassumersi con questi due aggettivi il colloquio con Aldo Maria Valli, vaticanista del Tg 1, autore di recenti pubblicazioni come “Con Francesco a Santa Marta” e “L’Alfabeto di Papa Francesco” (Ancora), e protagonista oggi, martedì 26 maggio alle 21, alla scuola media “Paolo VI” di Tradate (Varese), dell’incontro “Rivoluzione sotto il cupolone”, organizzato dall’associazione “Ex_tra”.

Aldo Maria Valli, qual è il segreto di Papa Francesco?

La sua semplicità e la sua credibilità. Prima ancora che con le parole si esprime con i gesti e si fa capire da tutti, compresi quelli che pensano di essere lontani dalla Chiesa e dalla fede. Non sopporta lo stile cerimonioso, le parole difficili, i discorsi complicati. È un realista, conosce bene i problemi delle persone. Anziché puntare sui comportamenti morali che derivano dalla fede, preferisce dire quanto è bello lasciarsi abbracciare da un Dio Padre che accoglie e perdona tutti. Da giovane voleva fare il missionario ma non gli fu possibile per ragioni di salute. Ora fa il missionario da Papa: annuncia la bellezza del Vangelo.

Le tre parole più importanti del suo pontificato?

Al primo posto metterei la parola misericordia. Francesco dice che il Vangelo va annunciato usando la medicina della misericordia e non la severità dottrinale. Misericordia non vuol dire perdonismo: significa adottare lo stile del samaritano, che si chinò sulle ferite del viandante e fece di tutto per assisterlo, senza chiedergli prima di quale lingua, religione e cultura fosse. Poi c’è la parola tenerezza: il cristiano non deve aver paura della tenerezza, la stessa di Gesù, che si trasforma in sollecitudine verso l’altro. E infine citerei la parola popolo. La pronunciò subito, la sera dell’elezione, quando disse: «E adesso incominciamo il cammino, vescovo e popolo». Per lui il popolo è importante e ha molto da insegnare, anche alla Chiesa.

In “Con Francesco a Santa Marta”, lei racconta il Santo Padre dietro le quinte, a stretto contatto con cuochi, operai, inservienti, guardie svizzere. Cosa l’ha più colpita?

Il suo desiderio di libertà. Mi ha spiegato di non aver rifiutato l’appartamento papale nel palazzo apostolico perché sia particolarmente lussuoso, ma perché è una specie di imbuto al contrario, con un ingresso molto piccolo, dal quale è difficile accedere al Papa. Questo per lui è inconcepibile, così come è inconcepibile che il Papa vivesse un tempo quasi isolato, circondato da una strettissima cerchia di collaboratori, e che gli fossero preclusi tanti piccoli gesti quotidiani, come lucidarsi le scarpe o aprire le porte. Non sopporta questi comportamenti tipici di una corte. Gli piace, al contrario, incontrare le persone celebrando la messa del mattino aperta al pubblico, e muovendosi liberamente in Santa Marta, dove non rifiuta mai il contatto personale, si tratti delle signore delle pulizie o di monsignori e cardinali.

Non s’era mai visto un Papa mescolarsi tra le persone con tale disinvoltura: scambia zucchetti in piazza San Pietro, sorseggia il mate offertogli dai fedeli, posa per i selfie con i ragazzi dell’Azione Cattolica. Una “desacralizzazione” del corpo invisa ai molti che accusano Francesco di annacquare il carattere imperiale, da Principe della Chiesa, per secoli incarnato dal vicario di Cristo in terra.

Queste critiche arrivano da settori tradizionalisti preoccupati più della forma che della sostanza, ma il Papa non se ne cura. A lui preme raggiungere tutti, ed ecco perché si lascia avvicinare, toccare, intervistare. L’importante per lui è comunicare lo spirito evangelico di accoglienza, di tenerezza e di condivisione.

Altra critica rivolta a Bergoglio riguarda la direzione impressa alla sua pastorale, incentrata sugli emarginati che abitano le “periferie del mondo” e sulla Chiesa come “ospedale da campo”. Lui, vescovo di Buenos Aires, a lungo prete di strada, viene ora bollato come un Papa “comunista”.

Ha commentato: «Mi dicono comunista ma io seguo il Vangelo». Non sta imponendo un’ideologia: sta riproponendo l’esempio di Gesù, che si lasciava avvicinare dagli esclusi del suo tempo, che denunciava le ipocrisie e i formalismi, che non puntava sui precetti morali ma parlava della bontà del Padre. Vivere in una grande metropoli come Buenos Aires gli ha insegnato l’abitudine al confronto, la pazienza di ascoltare i problemi, la necessità di chinarsi concretamente sulle ferite. A noi europei fa bene questa prospettiva latinoamericana perché abbiamo la tendenza a cadere nell’intellettualismo. Francesco invece è un realista.

Dalla preghiera per scongiurare la guerra in Siria, al ravvicinamento tra Stati Uniti e Cuba, passando per il ruolo di facilitatore del dialogo tra israeliani e palestinesi, senza scordare i frequenti riferimenti ai martiri cristiani in Paesi come il Sudan, l’Eritrea, il Pakistan, l’Iraq, dove la libertà religiosa è conculcata. Il lato più politico di Francesco si esprime nell’attivismo diplomatico?

Papa Bergoglio non è un diplomatico nel senso classico del termine, però il suo modo di essere, caratterizzato da una profonda umanità e dall’empatia nei confronti dell’altro, ha ricadute che sono anche di ordine diplomatico. È un uomo che sa ascoltare, che ha pazienza (una virtù molto importante per i gesuiti), che ha maturato una lunga esperienza in anni difficili nella sua Argentina martoriata dal regime militare. La sua è la diplomazia dell’incontro.

La “rivoluzione” di Bergoglio sta incontrando resistenze?

Francesco vuole una Chiesa povera e per i poveri. Ci sta lavorando a più livelli, dalla pastorale alla riforma della curia romana. Vuole una Chiesa di servizio, non di potere. L’arma a sua disposizione è la credibilità. Le resistenze arrivano soprattutto dagli apparati curiali che vedono a rischio i loro privilegi e mirano al mantenimento dello status quo, così da poter perpetuare le proprie funzioni senza controlli. Francesco ha ingaggiato una battaglia difficile, perché il nemico non si mostra a viso aperto.

Da profondo conoscitore di Carlo Maria Martini, anch’esso gesuita, anch’esso dotato di quel particolare carisma capace di interrogare credenti e non, quanto c’è di “martiniano” nel pontefice argentino?

Prima che diventasse papa, Bergoglio mi sembrava piuttosto simile a Martini per la sua sobrietà e anche per una certa austerità. Divenuto pontefice, sorride molto di più. Le somiglianze interiori con Martini sono il realismo, la capacità di avvicinare i lontani e di allacciare un dialogo con la cultura contemporanea, il rifiuto dell’uso della fede a scopo ideologico e della Chiesa per obiettivi politici, la tendenza a condividere una sofferenza più che a giudicare un comportamento. Esistono anche profonde differenze. Martini era un biblista e non si è mai considerato un pastore; in Francesco invece la dimensione pastorale è dominante. Di certo i due sono accomunati dalle disponibilità a lasciarsi sorprendere da Dio, che è molto ma molto più grande di tutte le teorie e tutte le classificazioni nelle quali l’uomo cerca di rinchiuderlo.

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