Abbiamo perso
Lettera a Dj fabo

Caro DJ Fabo,

oggi preghiamo per te. Ora che, di quella voglia matta di vivere che ti percorreva come un fremito, hai finalmente trovato la Sorgente prima. Adesso che, della tenerezza dell’amore di una donna, hai finalmente trovato il Grembo originario. Adesso che, di quelle accordature musicali che facevano vibrare gli stipiti della tua anima, hai finalmente trovato lo Spartito perfetto, nella celeste armonia dei cori angelici. Adesso che, del tuo dolore inconsolabile, hai finalmente trovato la Chiave per capirlo: lì, nel corpo di quel Dio crocifisso e risorto. Il corpo di Dio inchiodato su una croce: immobile come era il tuo. Il corpo di Dio denudato di dignità: spoglio come era il tuo. Il corpo di Dio caricato di un peso schiacciante: com’era il tuo corpo di malato disabile.

Pur non potendo approvare, è ovvio, la tua scelta finale, nel giorno in cui si prega per te vorrei chiederti scusa. Scusa anzitutto per quello squallido cicaleccio mediatico che si è scatenato attorno alla tua fine. Per quell’impudica esposizione di un dolore che avrebbe meritato ben altra delicatezza, discrezione, riserbo. Quando giusto sarebbe stato solo un silenzio, e un pianto. E una preghiera, per chi crede. Abbiamo visto la tua storia di gravissima disabilità analizzata, sezionata, filmata, postata, youtubbata. E le tragiche vicende del suo epilogo esibite come un trofeo, brandite come un ariete per future battaglie legislative. Anch’io mi ci sono messo, neh! Ma a quel punto come si poteva tacere? Temo, però, di dover un giorno incontrare il tuo rimprovero, per averle dette – quelle parole – sì con la testa e pure col cuore, ma anche – ahimè – sulla tua pelle. Non sulla mia…

Scusaci inoltre se, attorno alla tua vicenda, ci siamo così tanto divisi. Certo, sulle grandi questioni della vita e della morte discutere dobbiamo. E polemizzare, anche. E dividerci, anche, per l’amore di cercare la verità. Gesù stesso, in fondo, lo aveva previsto: «non sono venuto a portare la pace, ma la spada». Ma se le coscienze anche giustamente si sparigliano e si schierano – perché stiamo parlando della nostra umanità, di ciò che abbiamo di più caro –, mai dovremmo trascurare quella che Jaques Maritain chiamava «l’amicizia sociale». Per la quale possono esistere punti di vista diversi, anche diametralmente opposti, ma non dovrebbero esistere nemici, contendenti ringhiosi, avversari da sbranare dialetticamente. Se no – comunque vada a finire il confronto, chiunque la spunti nella dialettica delle idee –, sarebbe comunque una vittoria del Divisore.

Ma il terzo e più importante motivo per cui ti devo chiedere scusa è perchè non siamo stati capaci di assisterti, di sostenerti, di accompagnarti. Quando il vento gelido del veleno chimico ha spento quell’ultimo, povero, fragile, ma reale, e cocciuto, e insopprimibile refolo di vita che portavi dentro, non sei stato tu a perdere. Abbiamo perso noi. Noi abbiamo fallito nello starti accanto. In quel tuo arrenderti, in quel tuo dire basta, c’era la nostra sconfitta, più che la tua. In quella tua domanda di morte, che non siamo stati capaci di medicare, ma solo di accondiscendere, è morto un pezzo della nostra umanità. Oggi è un giorno triste per tutti gli ammalati, per i disabili – e malati e disabili lo siamo un po’ tutti –. Oggi questa immensa e dolente folla sussurra con amarezza «Fabo non c’è l’ha fatta…Fabo si è arreso».

Ovviamente solo Dio potrà giudicare la tua coscienza, quella imperscrutabile alchimia di testa e di cuore da cui è scaturita, come un rantolo drammatico, la tua domanda di morire. Ma se volentieri lasciamo soltanto a Dio di giudicare, per noi rimane che, se un fratello chiede di morire, significa che abbiamo fallito. Significa che la nostra civiltà non è in grado di custodire il bene suo più grande, la vita. Significa che la società civile ha perso, perché non ha saputo trovare i modi, i tempi, gli strumenti della cura.

Chissà quante volte tu stesso, da buon DJ, avrei messo su quella canzone di Renato Zero («I giardini che nessuno sa») che dice proprio così: «non sai come è bello stringerti, ritrovarsi qui a difenderti, e vestirti e pettinarti, sì. E sussurrarti non arrenderti…Sorreggili, aiutali, ti prego non lasciarli cadere. Esili, fragili, non negargli un po’ del tuo amore…non lasciarli adesso, no. Che non li sorprenda la morte …». Perché nessuno è stato capace di cantarti questa canzone? Perché non hai potuto trovare accanto a te, nell’ora cupa del dolore, un Benigni un po’ papà, un po’ giullare, capace di convincerti che «la vita è bella»? Che sì, anche qui, anche dentro questo inferno, la vita può e deve essere bella, se solo c’è qualcuno che inossidabilmente, testardamente, cocciutamente ti ama? E che tu puoi ancora riamare, di un amore fragilissimo e stupendo? Di queste parole, di questi gesti, di questi messaggi noi siamo stati incapaci. Ci è mancata la capacità di testimoniarti – umilmente, soavemente ma fermamente – che anche la disabilità più grave può diventare uno scrigno di luce, un tabernacolo d’amore. Che anche una goccia d’acqua, finché non si inabissa nel gorgo della cascata, può ancora riflettere l’azzurro del cielo.

Caro Fabo, la nostra colpa più grande è che, vicino a te, abbiamo lasciato soli la tua famiglia, la tua ragazza, i tuoi amici. Amici senz’altro sinceri, che hanno cercato in mille modi di aiutarti, di riempire la tua solitudine e il tuo strazio, ma che hanno fallito sull’ampiezza di cuore e di pensiero richieste. Hanno fallito sull’essenziale: la speranza. Non sono così innocente da biasimarli, ma sono sufficientemente lucido da non seguirli. Riposa in pace, Fabo. Amen.

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