Addio Monza, Lecco e Como
ora occhio alla dote

quante volte si dice che certe cose si fanno in due? È il caso di ricordarlo agli amici lecchesi che ora soffrono, e forse s’offrono, dopo l’addio di Monza. Con uno scatto da gran premio, questa si è liberata dalla corte di Lecco e si è buttata tra le braccia di una Milano metropolitana sempre più forte e attrattiva. L’unione riguarda le Camere di commercio che hanno votato di tornare da dove erano venute. Quel biglietto che fu di sola andata ora sembra poter valere il ritorno anche per Lecco e Como.

Tre cose dice Monza. La prima è al governatore Maroni sulle aree vaste, la seconda è ai comaschi e ai lecchesi sulla dote che per tutti è a rischio, la terza per i politici, gli amministratori e le categorie economiche dei territori sulla necessità di guardare al futuro con meno egoismi, più realismo e tanta più visione.

Andiamo con ordine. La decisione della Camera di commercio di Monza (25 voti a favore su 28 votanti) di fondersi con quella di Milano assume un valore anche per il dibattito in corso sulle cosiddette aree vaste, cioè le nuove province che il governatore Maroni preferisce chiamare Cantoni. Fa molto Svizzera.

Ci si dovrebbe chiedere come mai Monza ha preferito accantonare i sogni di supremazia e dire addio alla grande Brianza nel “rassemblement” con Lecco e con Como. Ci sono state forti resistenze. Soprattutto il comparto del mobile-arredamento avrebbe preferito fare distretto con Cantù e dintorni. Alla fine invece la forza magnetica di Milano è risultata troppo forte per resisterle.

Il passaggio a suo modo storico votato ieri dalla Camera di commercio monzese era stato preceduto poco tempo fa da quello di una importante categoria economica, gli industriali. Da qui anche ai piani alti del Pirellone potrebbero trarre un grande insegnamento: la volontà dei territori è determinante. Vince sempre quando sono liberi di decidere e non sono sottoposti a decreti calati dall’alto. O ai diktat.

Anche il governatore Maroni dovrebbe tenerne conto e aggiornare il suo piano. Aveva previsto l’unione di Lecco con Monza Brianza; l’aggregazione di Varese e Como dimezzata del lago. Dai territori sono venute indicazioni contrarie. Monza se ne è andata con Milano. Altro che Lecco. E ora, presidente Maroni, come la mettiamo con i Cantoni?

Manteniamo un piano di aree vaste dove per le Camere di commercio Monza è sotto Milano e come province invece sta con Lecco? Sarebbe un abito istituzionale degno di Arlecchino. Lo stesso varrebbe per Como smembrata a piacimento già per la sanità, per i trasporti, per gli Aler (gli ex Iacp) dove per ciascun campo le aggregazioni territoriali sono differenti. C’è confusione sotto il cielo lombardo.

Il secondo punto riguarda Como e Lecco. Forse è il momento che si rendano conto che l’errore è stato dividersi, non oggi riunirsi. Non tutto torna esattamente come prima. Attenti che dietro l’angolo c’è un grosso rischio. Sia Como, sia Lecco hanno avuto e hanno province virtuose con molti soldi nel fortino. Decine e decine di milioni che sono finiti nella tesoreria unica nazionale. Una autentica beffa. Lo stesso pericolo lo corrono ora le due Camere di commercio. Quella di Como ha un patrimonio netto di 32 milioni, quella di Lecco di 22 milioni. Se la fusione sarà fatta in tempi rapidi, e comunque prima che arrivi il decreto, forse questo tesoretto potrà essere salvato. Altrimenti rischierà di finire nella fauci romane.

Infine, i politici, gli amministratori e le categorie economiche di Como, di Lecco e delle altre città dovrebbero finalmente imparare la lezione. Finora davanti all’incalzare della rivoluzione imposta dal governo sono stati impegnati a proteggere i confini, gli orticelli e soprattutto le poltrone. Si sono occupati di difendere il loro potere e si sono dimenticati di governare il cambiamento e di progettare un futuro credibile e magari ambizioso per i nostri cittadini e le nostre imprese.

A Monza hanno fatto una scelta. Ora tocca a Lecco e a Como battere un colpo. Dai. Lo diceva anche il Manzoni. Questo matrimonio s’ha da fare.

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