Comunque Renzi
ha parlato da leader

E poi ci sono momenti in cui la politica, magicamente, sembra volare alta, persino credibile. Proprio come quando parlano i grandi leader, che però di solito sono stranieri: i leader degli altri. Che bello sentirli: «I have a dream», «I care» (vabbé, quello era pure Veltroni, pazienza). Però poi ascolti meglio, cerchi di leggere il labiale, ma quello parla troppo veloce, con il labbro troppo stretto. Così controlli su twitter e sì, l’ha detto davvero. A un certo punto ha detto: «Con i telefonini potremmo superare l’idea stessa di certificato».

E non sai bene, non sai più, se è politica, se è il nuovo claim pubblicitario di una compagnia telefonica, se è la metafisica applicata all’epoca del fine della burocrazia. Che poi, che differenza fa? Matteo Renzi, preso dal punto di vista della comunicazione politica, è tutto questo e anche di più, frullato insieme. Il presidente del Consiglio, ieri mattina alla Camera, ha parlato per 45 minuti, a braccio, disegnando nell’Aula per antonomasia «sorda e grigia» il suo «programma dei mille giorni». I suoi intenti, le scelte impegnative e senza possibilità di ritorno del suo governo. Ma anche i suoi (e in fin dei conti anche nostri) sogni sul futuro del nostro Paese. Come potrebbe essere l’Italia tra meno di tre anni. Più snella, con più lavoro, con più giustizia. O dovrà, perché se non cambierà tra mille giorni saremo un Paese morto.

Ha parlato senza mai incespicare, senza mai perdere il filo, passando dai «big data» dell’Expo di Milano a Benedetto Croce e Giorgio La Pira, pronto persino a ribattere al pubblico oppositore e rumoroso, «prima la Costituzione, poi le vostre polemiche ideologiche», come un attore consumato. Verso sera, in Senato, ha tirato fuori un’altra delle frasi un po’ a effetto, ma un po’ anche così vere che non si possono contrastare, e che fanno parte della sua essenza di uomo politico al pari della camicia bianca: «Il domani non può essere la cosa che incute terrore».

Ripetere un’altra volta che Matteo Renzi parla bene (comunque si giudichi il contenuto, è il più efficace oratore politico italiano da molti anni a questa parte: avete presente Mario Monti o Enrico Letta?) è perfino banale. È un dato acquisito dagli «addetti ai lavori», ma entrato ormai sottopelle a tutti gli italiani. Però con Renzi, sembra di dover tornare ogni volta allo stesso punto. Ogni volta che parla. Bene, ma questa è solo la forma, o è anche il contenuto? È chiacchiera e giovanile irruenza, verve fiorentina e gusto di avere sempre l’ultima parola, o alla fine si potrà anche «vedere cammello»?

Tutti quelli che pensano di no, che alzano il sopracciglio e snocciolano dubbi, secondo il premier twittarolo appartengono alla razza dei «gufi e rosiconi». Messa così è un po’ troppo facile. Anche perché, siccome ogni rovescio ha la sua medaglia, dall’altra parte ci sarebbero solo le facce degli inguaribili ottimisti, degli allegri sognatori. A ben pensarci la vera sfida che Matteo Renzi e il suo «governo della Via Pal» stanno ponendo agli italiani è proprio questa: una sfida morale, psicologica, prima ancora che politica. Volete scommettere sull’Italia, o ci sediamo lungo il fiume ad aspettare l’arrivo della Troika? È il bello di Renzi, la sua vera forza, costringere tutti a scegliere da che parte stare prima ancora di conoscere i dettagli. Ieri il presidente del Consiglio ha parlato di scuola, di Pubblica amministrazione, di giustizia, di lavoro, delle minacce che vengono dalla politica estera, e sono tante. Ma prima ancora ha detto qualcosa all’identità e alla storia degli italiani. Tanto o poco che sia, ma lo scopriremo ben prima dello scoccare dei mille giorni, per una volta abbiamo sentito un politico italiano parlare come parlano i leader. Quelli che di solito sono solo i leader degli altri.

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