Fino a dove ci porta
l’orsa uccisa

In una pagina memorabile di “Antichi maestri”, capolavoro di un gigante della letteratura del Novecento come Thomas Bernhard, il professor Reger chiude così la sua spietata e sconvolgente autoanalisi sul significato dell’arte e della vita, ispirata dalla morte della moglie: “Odiamo gli esseri umani, ma vogliamo stare con loro perché solo con gli esseri umani ci è data una possibilità di continuare a vivere e di non impazzire”.

Soli non resistiamo a lungo, ci immaginiamo di poter far a meno degli altri, di abituarci alla solitudine, di sopportare l’abbandono, di vivere solo con noi stessi, ma

questa è pura follia: “Senza gli esseri umani non abbiamo la benché minima possibilità di sopravvivere”.

È un ragionamento demodè, specialmente in giorni in cui la popolarità dei bipedi presso noi stessi è ai minimi storici. E non certo a causa dei ragazzini ammazzati per strada, delle stragi etnico-religiose e le decapitazioni in Medio Oriente o dei povericristi annegati nelle acque di Lampedusa. Di barbarie del genere e di altre mille volte peggiori è intarsiata la storia di questo vecchio sasso. No, il crollo dello “share” degli esseri umani è legato alla vicenda, penosissima e letteraria, dell’orsa Daniza. La cosa impressionante è la reazione istintiva, di pelle, di massa che ha invaso i giornali, i tg e soprattutto i social media con una passione, una virulenza e un’ossessività che non può essere casuale e che deve quindi toccare qualche corda sotterranea e sensibilissima. Ora, lasciamo da parte lo spettacolo penoso della polemica politica, che a sentire certi sarchiaponi e certe damazze da quattro soldi moraleggiare sui poveri animali umiliati e offesi ci sarebbe da inseguirli col forcone, senza parlare di alcuni tromboni dell’informazione che se non cavano fuori una metafora pure da Sorella Orsa e Madre Natura si sentono dei falliti. E di certi talebani del dogma animalista, che se si estingue la cavalletta maculata dell’Illinois vestono il lutto per tre mesi e se invece muoiono di fame venti bambini al giorno nel Darfur se la cavano con uno sbadiglio.

Però il tema c’è. E il suo aspetto toccante è quello che porta sempre più gente a convincersi che è tutta colpa nostra e che facciamo proprio schifo, esseri umani avidi, vigliacchi e fangosi, e che gli animali sono mille volte meglio di noi. Se vuoi un amico in un posto di lavoro prenditi un cane, diceva quello là. E aveva ragione. Loro ti amano a prescindere, sono gli unici maschi e le uniche femmine che non ti abbiano mai deluso, seguono regole di natura dure e spietate ma coerenti, non fanno caso alla tua ricchezza, al tuo potere o alla tua cultura, non hanno retropensieri, ti si donano completamente come nessun essere umano potrà mai fare, ti aspettano come Hachiko e tutto il resto del rapporto tra uomo e animale che ha fatto sì che quel genio di Malaparte – in un passaggio straordinario de “La pelle” - vedesse trasfigurato nel suo cane vivisezionato il Cristo crocifisso. Una pagina immortale, da piangere. E tanti di noi condivideranno questa lettura del mondo, che non riguarda solo i cani, ma tanti animali da compagnia o anche selvatici o esotici.

Bello, no? Bastano loro. È solo con loro che può instaurarsi un vero dialogo di comunanza. Via dalle ipocrisie, dalle schifezze, dai compromessi, dalla nostra culturetta da Lollipop, dalle tattiche meschine che ci logorano giorno dopo giorno e sfibrano i valori veri su cui costruire un’esistenza che si immedesimi nello stato di natura. Ma forse, a pensarci bene, neppure questo è abbastanza. Se il nostro obiettivo è tagliare i ponti con l’umanità, allora neppure la tenerezza per gli animali è sufficiente. In fondo, anche loro amano, soffrono, sono schiavi dell’ansia di sopravvivenza e riproduzione, hanno fame, sete, paura o aggrediscono – come Daniza – chi invade il proprio territorio o viene visto come un pericolo per i propri cuccioli. Umani. Troppo umani pure loro. Quel cane ha un occhio umano. A quella scimmia manca solo la parola. Non si dice così, forse?

E allora, per essere coerenti, forse è meglio ritrarsi ancora, fare un altro passo indietro. Forse sono meglio le piante, che non ringhiano, non miagolano, non ululano, non mordono, non graffiano. Esseri silenti, mirti divini, ginestre fulgenti, fiori accolti, tamerici salmastre e arse, magari illuminate, mentre il dì di festa si spegne a poco a poco, da una luna pallida e assorta e via così con i nostri dolcissimi e patetici ricordi liceali. Eppure, anche loro chiedono e pretendono attenzione e acqua e cure e fertilizzanti e seminagioni e insetticidi contro gli afidi e gli acari e i pidocchi e la cocciniglia e la gramigna e le erbe infestanti e la mosca bianca e la formica argentina. E se le abbandoni, intristiscono e ingialliscono e la pioggia le fa marcire, il sole avvizzire, il gelo stroncare.

E allora sapete che c’è? Sono meglio le pietre. Queste sì che non hanno più nulla a che fare con noi esseri umani. Niente sentimenti. Niente pretese. Niente affetti. Niente vita. Possono starsene ferme e immobili nei secoli dei secoli: quarzi, scisti, ametiste, lave, cristalli, graniti, marmi. Monoliti.

È qui che si può arrivare partendo dalla semplice morte di una povera orsa. Alla negazione dell’esistenza. E lì era arrivato il professor Reger che, al colmo della disperazione, si era affacciato dalla finestra sperando e pregando e implorando di scorgere uomini perfetti, sensibili e materni che potessero sollevarlo dal suo dolore inconsolabile. Ma di persone così non ce n’è. Non esistono. È questa fogna che ci è stata data in sorte.

È con queste schifezze, questi impasti di sangue e melma, pulsioni e lussuria, carne e corruzione che dobbiamo confrontarci giorno dopo giorno. E non ci sono orsi, lupi, cani, gatti, delfini o panda che possano farci deviare dalla nostra vera sfida. Amare quella feccia che gli uomini sono, sono sempre stati e sempre saranno. Porgere l’altra guancia è la vera vittoria.

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