Gli adulti di domani
non sanno parlarsi

A noi umani piacciono da matti i paradossi. Nobel inventò la dinamite e fu così sconvolto per la deriva bellica della sua creatura da legare indissolubilmente il suo nome al più importante premio per la pace. Nel nostro piccolo, in quel di Como, per valorizzare la bellezza del lago eravamo riusciti a costruirci davanti un muro, ma questa è un’altra storia.

Forse però il paradosso più clamoroso è anche il più attuale. La generazione coniugata al futuro, cioè i ragazzi che affollano le nostre scuole, è allo stesso tempo la più connessa di sempre e la meno capace di comunicare. Prendete un gruppo di adolescenti, metteteli in una stanza, dotateli di smartphone connesso a internet e avrete il silenzio: potrebbero comunicare con sconosciuti impigliati nella rete dall’altra parte del mondo, ma è facile invece che scambino faccine e riflessioni con l’amico seduto accanto, risparmiando la voce. Esagerazione? Anche no, se si pensa che ci sono genitori talmente preoccupati per la dipendenza da cellulare dei figli da dirsi pronti a ricorrere agli psicologi.

Altri, per evitare di essere costretti a tanto, provano ad aggirare l’ostacolo. Svogliate fino a pagina 17 del quotidiano che avete in mano per leggere della gita al Tonale pensata come disintossicazione da smartphone per i ragazzi della scuola media di via Brambilla. Il commento di uno degli accompagnatori vale più di mille analisi: «I ragazzi, senza il telefonino, si sono guardati in faccia».

Un studio di non molto tempo fa rivela che il 53% dei ragazzi tra i 9 e i 16 anni possiede uno smartphone, e il 48% lo usa quotidianamente per connettersi a internet. Non esiste ormai classe delle medie in cui i ragazzi non comunichino tra loro attraverso i gruppi creati su whattsapp, l’età media di chi si iscrive su facebook è sempre più bassa e il mercato on line offre sempre più social in cui navigare. L’esperimento della scuola di via Brambilla è dunque un passaggio obbligato non già per vietare ai ragazzi l’accesso al mondo che maggiormente conoscono, ma per presentare un modo diverso di socializzare caduto in disuso perché più difficile, meno immediato, forse anche più impegnativo.

Una ricercatrice di Harvard ha provato ad analizzare il rapporto degli adolescenti con la Rete e il risultato - sintetizzato dal titolo - è che la questione “è complicata». Ed è interessante l’assioma di partenza dal quale si dipana l’intera analisi che la studiosa fa nel suo libro: «I ragazzi non sono dipendenti dai social media: sono dipendenti l’uno dall’altro». Tradotto: non sono tanto facebook, twitter, whattsapp, instagram ad attrarre i nostri figli, ma l’occasione che questi mezzi danno loro per restare i contatto con gli amici. La facilità di riuscire a non spezzare la relazione con i compagni di classe anche una volta suonata l’ultima campanella.

Se questo è il punto di partenza, ovvero la scintilla che rende così popolare i social network, altro discorso è la vera e propria dipendenza che alcuni adolescenti hanno per lo smartphone e per i social network.

Il rischio concreto, insomma, è che l’esigenza che è la stessa per tutti gli adolescenti di ogni epoca, quella di poter restare connessi con i loro coetanei - noi, da ragazzi, lo facevamo all’oratorio o sul campo di calcio e di basket del quartiere - si possa trasformare in una dipendenza. E che, dunque, il mezzo finisca per diventare più importante dello scopo. Ma anche questo, a modo suo, sarebbe un paradosso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA