Il migrante non è
un allarme sociale

I migranti morti ieri in Sicilia sono l’ultimo episodio di una tragedia che non conosce tregua. Si calcola che negli ultimi tre anni abbiano perso la vita, nel corso delle traversate, più di duemila persone. Un’autentica ecatombe, probabilmente sottostimata visto il numero delle imbarcazioni con profughi a bordo date per disperse nelle acque del Mediterraneo. E sono cifre destinate, purtroppo, a incrementarsi, se non saranno adottate adeguatamente strategie di contrasto nei confronti del dilagare di trafficanti privi di scrupolo . Un volume d’affari stimato in almeno un miliardo di dollari l’anno con migranti costretti a pagare, per traversate da incubo, cifre che possono corrispondere a tre anni di lavoro e di sacrifici. Nel giro di poco tempo lo scenario del Mediterraneo è radicalmente cambiato. Si è trasformato in un gigantesco vaso di Pandora attraversato da conflitti nazionalisti e religiosi, con tratti fondamentalisti e anti occidentali e che hanno comportato centinaia di migliaia di vittime e un esodo di milioni di persone. L’Italia, per ragioni geografiche, costituisce il più naturale approdo di questi flussi. La nostra nazione si trova di fronte ad un compito immane, e non solo per i costi di accoglienza (due miliardi di euro negli ultimi tre anni).

Le strutture di accoglienza devono far fronte agli obblighi di identificazione di persone che provengono da molteplici Paesi e che hanno aspettative diversificate.

L’Europa guarda da un’altra parte. Le autorità Ue rammentano all’Italia gli sforzi fatti dalla Germania e da altri Paesi dell’Europa centrale nell’affrontare l’accoglienza dei migranti provenienti dalle aree ex sovietiche, e per numeri ben più consistenti dei centomila profughi accolti dall’Italia negli ultimi tre anni. Ma dimentica che, in quell’occasione, l’emergenza fu accompagnata da una politica rivolta a integrarli economicamente e persino a farli aderire all’Ue. Ma l’Europa rimane priva di una strategia rivolta al Mediterraneo.

Il problema non è solo quello di aumentare le risorse messe a disposizione dell’Italia per sostenere l’accoglienza dei profughi, ma di recuperare una politica estera e di cooperazione economica nel Mediterraneo volta a prevenire le migrazioni indesiderate, e a governare meglio quelle programmate per motivi di lavoro. Ma un po’ di autocritica la dobbiamo fare pure noi.

Gli sbarchi e il numero dei richiedenti protezione internazionale sono una piccola parte dei flussi migratori. Nella media meno del 5% del totale. Nell’ultimo anno il numero di richiedenti protezione internazionale è stato pari a un quinto delle ricongiunzioni familiari. Eppure, nonostante queste persone rappresentino la parte più debole, e vulnerabile, dei flussi migratori verso il nostro Paese, non esitiamo, sul terreno politico e mediatico, a parlare di questo fenomeno in termini apocalittici e strumentali. Attivando così un potenziale di conflittualità, tra amministrazioni e comunità, che ottiene solo il risultato di indebolire la nostra capacità di gestione ordinaria di questi flussi trasformandoli in una emergenza permanente. E tutto questo certamente non aiuta il nostro Paese nel diventare più autorevole, in Europa, nel sostenere le nostre sacrosante ragioni.

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