Il vescovo, la cura
dei malati e il fine vita

Sul delicatissimo tema del fine-vita e dell’assistenza terminale si è tenuto ieri un incontro al quale il Vescovo Oscar Cantoni ha inviato un intervento che qui pubblichiamo.

Non potendo personalmente essere presente, desidero però farvi pervenire il mio cordiale saluto, che è anche un ringraziamento per l’opera da voi svolta e un invito a proseguire nella direzione intrapresa a servizio delle persone ammalate. Il mio saluto si estende non solo ai convegnisti, ma anzitutto a tutti i volontari e all’èquipe socio-sanitaria dell’Associazione Accanto onlus Hospice San Martino. Rimanere accanto ai malati, soprattutto nella fase della malattia cronica, ingravescente o terminale, in regime di ospedalizzazione o attraverso l’assistenza domiciliare, rappresenta oggi un’azione di grande pregio civile e umanistico, nell’ambito di una visione solidale della vita umana e di una concezione della comunità degli uomini che mette in primo piano i valori della prossimità e della cura reciproca.

Per chi crede, poi, questa visione solidaristica trova pieno suggello e compimento nel comandamento della carità fraterna, specialmente verso i più piccoli e i più fragili, che Cristo ci ha lasciato come eredità e testamento.

Sono consapevole dei molteplici e complessi problemi che l’assistenza medica ed infermieristica è chiamata oggi ad affrontare, anche in relazione al prolungamento della vita media e al conseguente aumento delle patologie cronico-degenerative. L’assistenza terminale, inoltre, che un tempo

gravava quasi per intero sul nucleo familiare, abbisogna oggi di risposte più articolate e diffuse, che uniscano insieme senso di umanità, professionalità medica e psicologica e presenza capillare sul territorio.

L’umanizzazione della malattia, anche nella sua fase più acuta e penosa, rappresenta un’opera di altissimo valore etico, affinché nessuno si senta lasciato solo e abbandonato nell’ora grave del confronto con l’invasività del morbo e con l’inesorabilità della morte. Anche quando non è più possibile “guarire”, è infatti sempre possibile e doveroso “curare”.

Le forme dell’accudimento e del prendersi cura trovano poi, nel nostro tempo, una fondamentale

risposta nella medicina palliativa e nella terapia del dolore. Curare il malato, anche quello inguaribile e terminale, garantirgli vicinanza, sostegno e attenuazione del dolore inutile, rappresentano oggi la vera e nobile strada da intraprendere, anche per non lasciarsi lusingare dalla tentazione subdola e disumana dell’eutanasia.

Il mio incoraggiamento non è solo all’azione “sul campo”, al capezzale del malato, ma anche all’opera culturale di sensibilizzazione e di riflessione. Il pensiero della morte, ad esempio, o meglio del morire con dignità, sempre più espunto e censurato nelle forme della comunicazione pubblica, deve invece ritrovare la sua centralità e la sua importanza all’interno del dibattito civile.

Così pure la promozione di una cultura della vita, della vicinanza al malato e della dignità della malattia. Anche sul versante politico e giuridico è necessario stimolare una riflessione di alto spessore umanistico, ponendo il problema della libertà di cura e del protagonismo del malato nell’azione terapeutica che lo riguarda, con particolare riferimento al tema del “consenso informato”. Una legge civile sul cosiddetto “testamento biologico”, da più parti invocata per sopperire ad alcune lacune dell’attuale sistema sanitario, dovrà comunque mantenersi ben salda nei binari del rispetto della vita umana, senza concedersi ad ambigue logiche di eutanasia e di abbandono terapeutico.

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