In che mani mettiamo
la difesa del lavoro

Qualche anno fa un brusco alto dirigente di un’importante azienda del Nord, al termine di un confronto con le parti sociali, confidò ai suoi collaboratori: “Non preoccupatevi troppo di quelli che sbraitano, insultano e minacciano scioperi a oltranza. Sono i classici quaquaraquà che poi ti compri con un piatto di lenticchie…”.

Brutale, ma illuminante. Bisogna sempre sospettare degli scamiciati, degli arruffati, degli esagitati, degli indignati, dei dietrologizzati e, soprattutto, dei perennemente sudati. Gratti il masaniello, ti salta fuori il

cialtrone. Che nasconde tra un fiume di parole e avverbi e aggettivi e superlativi che zampillano da ogni dove il molto più prosaico obiettivo di mantenere una rendita di posizione maturata chissà come tra i gangli del parassitismo politico ed economico e che punta a coprire sotto un manto di trombonismo altisonante la sua innata lazzaronaggine e inadeguatezza a competere sul mercato dell’impegno e del merito. Vecchia storia: gli tiri un osso da lappare e il conflitto sociale è già bello e risolto. Almeno per lui. Alla faccia di tutti quelli che, a voce, dovrebbe tutelare fino alla morte.

Ma non ci sono solo personaggi del genere. Ci sono anche i moralisti, quelli che sono davvero convinti di essere primattori nello scontro finale per la civiltà e la democrazia. E questi, che spesso sono pure delle brave persone, sono ancor più pericolosi. Venerdì sera su La7, ad esempio, si è potuto assistere a uno stralcio di televisione a suo modo esemplare sul livello del dibattito in questo pittoresco paese a metà tra la Repubblica delle banane e la Bulgaria degli anni Sessanta. Si parlava di articolo 18, ovviamente, e c’era un tale tutto sovraeccitato, scamiciato e indignato che ha inveito contro l’incolpevole Pietro Ichino, reo di essere un servo del padrone come tutti i giuslavoristi, ha scomunicato la congrega dei poteri forti e delle multinazionali totalitarie e affamatrici, ha sbraitato contro chiunque volesse fare carne di porco dei diritti dei lavoratori conquistati in decenni di lotte preclare ed eroiche, perché la gente deve sapere come si vive in fabbrica, caro lei, altro che voi con il vostro latinorum, ha ululato contro la sinistra al caviale di Renzi che smantella lo Stato sociale e la dignità del sindacato, unica barriera equosolidale contro imprenditori predatori e vampireschi, e, infine, ha minacciato chi progetti di esportare in Italia il superomismo thatcheriano.

E a questo punto è necessario un inciso. Perché se la Thatcher – che è stata un gigante – fosse ancora viva, prima prenderebbe a ombrellate la Camusso che ha osato paragonarla a un italianuzzo furbastro come Renzi. Poi prenderebbe a ombrellate Renzi, che gioca tanto al liberista ma gli ottanta euro al mese li ha dati solo agli ipergarantiti mentre lei, nello stesso tempo speso dal nostro premier tra chiacchiere e distintivi, ha rivoltato come un calzino il fallimentare Stato sociale britannico. Infine, prenderebbe a ombrellate qualche dozzina di politichesse e parlamentaresse di destra, centro e sinistra che fanno un gran cinguettare sulle donne competenti finalmente al potere, ma che a una come Maggie non sono neppure degne di allacciare le scarpe. E con la speranza che le ombrellate placassero la sua ira, perché altrimenti ci avrebbe messo un attimo a spedire una flotta armata di tutto punto a invadere le Eolie, le Egadi e pure le Tremiti. Personaggio terribile e dividente come nessun altro, certo, e con costi sul tessuto sociale durissimi e spesso inaccettabili. Ma che leader. Che statista. Che donna. Che donna! E noi, invece, qui a pendere e sbavare dal tacco dieci della Boschi. No comment.

Ma il vero punto della questione è che l’esagitato de La7 è una figura immortale del panorama italiano. Dalle lunghe radici e dalla lunga durata. Che sgorga fuori dal culturame post sessantottesco e che abbiamo visto mille volte in azione, sotto diverse spoglie, sia negli anni della scuola sia in quelli dell’università, per poi ritrovarcela nei posti di lavoro più protetti, castaioli e parassitari. L’esatto contrario di profili straordinari di sindacalisti d’altri tempi e di altre Italie come Di Vittorio. Chissà perché…

Che nostalgia, a ripensarci ora. Le assemblee scolastiche, le occupazioni che si scatenavano a ottobre per finire a inizio dicembre, giusto in tempo per il ponte di Sant’Ambrogio, i collettivi universitari, i maglionazzi sformati, i cineforum con i film iraniani, i gruppi di lavoro. Ah, i gruppi di lavoro. Che meraviglioso e indimenticabile spaccato lombrosiano erano i gruppi di lavoro, dove già il sostantivo “lavoro” rappresentava una plateale provocazione. C’era il leaderino forforoso che adesso ce la spiegava lui la verità rivelata sui maneggi del baronato universitario, il guardaspalle con il complesso di Edipo che giù le mani dall’istruzione pubblica e dalla memoria della gloriosa guerra di liberazione, il trotzkista maieutico che ben altri erano i problemi del mondo, il sacerdote della doppia morale con il ditino sempre alzato, quello che girava per le aule con un foglio in mano per darsi un tono e far vedere che aveva un gran daffare e, soprattutto, quello che ce l’aveva con tutti e dagli ai politici, dagli ai poliziotti, dagli ai commercianti e agli artigiani e agli industriali e pure ai preti e che però, curiosamente, dismetteva il suo odio sociale una volta a settimana, quando prendeva la paghetta dal papà per fare benzina alla sua Golf nera Gti (come da immortale corsivo dell’allora mitologico Michele Serra).

I più scaltri e spregiudicati hanno poi fatto grandi carriere nel Psi e in Forza Italia – e nei giornali à la page – i più tontoloni sono sempre lì, a sventolare la loro bandierina e le loro parole d’ordine sbrindellate mentre i bambini li guardano e si danno di gomito, domandandosi come sia possibile che la difesa del posto di lavoro sia ancora nella mani di sarchiaponi del genere. E questa – beata innocenza - è davvero una buona domanda.

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