In Ticosa fiamme
rosse di vergogna

Ogni città si porta sulle spalle la sua brava dose di degrado. Stabilito ciò, prima di scagliarci contro l’inettitudine degli amministratori e la rapacità della politica, riflettiamo sul fatto che, comunque la si voglia mettere, la gestione delle trasformazioni sociali ed economiche non è mai facile, e a volte si rivela addirittura impossibile. Le trasformazioni (o transizioni) di cui sopra – come quella dall’industria al terziario – lasciano un segno nell’urbanistica, riempiendo di vuoti le planimetrie e di enigmi i piani regolatori.

Ecco fatto: adesso scagliamoci pure contro la politica. È ovvio infatti che ci ha messo del suo, tra rinvii, arretratezza strategica, contrapposizioni paralizzanti, pura e semplice incapacità.

Se tutte le città includono una certa quantità di degrado, non c’è dubbio che a Como sia toccato un fardello pesante. Lo sappiamo perché al degrado ci passiamo davanti ogni giorno, e perché il giornale ne scrive spesso, ma saperlo non equivale a rendersene conto con inequivocabile chiarezza: l’abitudine e l’indifferenza smussano i contorni di certe presenze, per quanto ingombranti esse siano. Quando però dal degrado si alzano fiamme che, per domarle, i pompieri devono lavorar duro, allora l’imbarazzo salta agli occhi di tutti e l’urgenza civica e morale di porvi rimedio si fa lampante.

È accaduto ieri alla Santarella, una delle poche strutture rimaste in piedi della vecchia Ticosa: fiamme vigorose, sfacciate, fumo denso, visibile in tutta la città, e i disperati, ospiti negletti di quel tugurio, che scappano in ogni direzione. Una scena da “I miserabili” o da Charles Dickens? Macché, a poche decine di metri in linea d’aria, ritroviamo la Como scoperta dai turisti, il Duomo, il lago, la gente che si accapiglia sul design - funebre? - delle panchine di piazza Volta.

Forse irritata dalla marginalità di quel dibattito, la Ticosa ignorata si è fatta viva ieri sprizzando fiamme. Dal 1982, anno di chiusura della fabbrica, a oggi, sull’enorme area la pioggia s’è alternata al sole, la Seconda Repubblica alla Prima, sono arrivati gli immigrati clandestini e si è formato un lago, è cresciuta l’erba ed è scesa la polvere, si è grattato l’amianto e piazzata la dinamite per buttar giù la vecchia struttura. Nulla, però, è stato costruito, tranne uno scandalo che, giorno dopo giorno, da topolino è diventato elefante, da lucertola tirannosauro.

Se le paratie rappresentano un insulto al lato estetico della città, la Ticosa è un affronto alla sua cultura del lavoro, alla politica come servizio, all’efficienza un poco svizzera che, negli anni d’oro, non le era estranea. Sta lì a dire che, come amministratori del bene pubblico, non siamo stati meglio degli altri: anzi, siamo stati peggio.

Difficile, oggi, immaginare il volto di chi diventerà sindaco nel 2017. Potremmo abbozzare l’identikit dicendo che dovrà essere un gran ottimista e uno (o una) che non si lascia spaventare dall’impossibile. Perché non c’è dubbio che la sua missione sarà quella di sgomberare Como da Ticosa e paratie, esempi di degrado al quadrato e di inefficienza al cubo. Come potrà farcela, il cielo soltanto lo sa. La buona volontà sarà l’ingrediente di partenza, ma da solo non potrà bastare. Ci vorrà dell’altro: decisione, diplomazia, astuzia amministrativa, “peso” politico. Ad aiutare il futuro sindaco, forse, il ricordo dell’incendio di ieri. Qualunque cosa accada, una vergogna che non dovrà ripetersi.

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@MarioSchiani

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