La resa vigliacca
dei politici ai giudici

Ai politici si può perdonare tutto. Ma tutto davvero. Cinismo, arrivismo, carrierismo, conformismo, benaltrismo, doppiomoralismo, cialtronismo e poi impreparazione, incultura, inadeguatezza, spregiudicatezza e tutto il resto che volete voi. Fa parte del mestiere più antico del mondo, assieme a quell’altro, e chi pensa che possa essere diverso, da Pericle a Razzi, vive nel mondo delle fanfaluche.

Ma non gli si può perdonare di essere dei vigliacchi. E di dimettersi, di abiurare, di cancellarsi dal proprio ruolo per viltà. Ed è invece quello che è accaduto in questi venticinque anni schifosi e tragici che hanno sancito, per mezzo della retorica della rivoluzione giudiziaria che tutto avrebbe sanato, tutto avrebbe ripulito, tutto avrebbe mondato, la fine culturale della politica. La sua sparizione come entità autonoma e sovrana e la sua trasformazione in ancella di un potere separato e irresponsabile al quale è stata data una delega in bianco sulle sorti della nazione, dei suoi rappresentanti, dei suoi governi. Le fanghigliose vicende di questi giorni, dagli sviluppi del caso Consip con allegata denuncia del Pd di atto eversivo ai danni del segretario Renzi, al sequestro dei conti correnti della Lega, con allegata denuncia della Lega di atto eversivo ai danni del segretario Salvini, fino alle clamorose e tardivissime assoluzioni dell’ex ministro Clemente Mastella (nove anni dopo) e dell’ex direttore generale della Sanità di Regione Lombardia Carlo Lucchina (sette anni dopo), non sono altro che gli ennesimi rigagnoli di un’anarchia da paese mediorientale.

Ora, nessuno è così ingenuo da non sapere che politica e malaffare sono due mondi destinati a sovrapporsi spesso - caduta e corruzione segnano la natura degli uomini - e che quindi un controllo rigoroso, puntuale, implacabile su tutte le ipotesi di reato va sempre esercitato, senza dimenticare l’obbligatorietà dell’azione penale e l’esempio di tutti gli eroici servitori dello Stato che in questi anni si sono prodigati per far rispettare la legge e l’ordine e bla bla bla, ma qui la cosa è diversa. Qui, da un quarto di secolo ormai, non è più questione di indagini, di processi e di sentenze. Qui assistiamo ai diktat di una magistratura, anzi, di un pezzo di magistratura, che è assurta a un ruolo totalmente estraneo alla sua natura e che piega le indagini e i processi per finalità che nulla hanno a che vedere con l’applicazione del diritto. Lo ha riconosciuto qualche giorno fa in modo scioccante lo stesso Di Pietro, metafora di quel modo di essere magistrati. Ormai fuori dal circo mediatico, ha ammesso - e che lo abbia fatto durante una trasmissione televisiva del mattino aggiunge un tono di grottesco alla vicenda - di aver costruito il consenso sulla paura delle manette.

Perché la loro missione era tutta finalizzata a incastrare il cinghialone. A prescindere. A tesi. A priori. E con qualsiasi mezzo, lecito o poco lecito, tipo la carcerazione preventiva fino a quando non si confessa non quello che è, ma quello che si vuole sentire. E non è forse stato così? Non è forse così? Ogni cosa andava bene pur di incastrare Craxi, che tra l’altro, più passa il tempo, visto il deserto che ci circonda, assurge sempre più alle dimensioni di statista, nonostante tutte le sue schifezze.

Ogni cosa andava bene pur di incastrare Berlusconi, che tra l’altro, più passa il tempo, visti Di Maio, Salvini, Gentiloni e Bersani, sembra sempre più De Gasperi, pensa un po’. E ora ogni cosa va bene pur di incastrare Renzi, che tra l’altro, più passa il tempo, più assomiglia a Renzi.

E il dramma è che questo non è stato un golpe, con tanto di sostituti procuratori colonnelli greci o gip generali sudamericani. Il vero dramma è che sono stati i politici, all’inizio quelli di sinistra, poi tutti gli altri al seguito, a seconda della bisogna, a consegnarsi docilmente nelle loro mani. Visto che non riesci a prendere il potere con il voto e con la bontà delle tue proposte, cosa di meglio che affondare un assessore, un ministro, un governo per via giudiziaria? Quante volte lo abbiamo visto, con relative archiviazioni o assoluzioni postume? Quante carriere, quante famiglie, quante vite stravolte da indagini ridicole - in particolare quelle di uno stravagante pm, del quale sfugge curiosamente il nome - e sempre senza esito? E quanti garantismi pelosi e piagnistei e birignao da parte degli stessi partiti quando erano loro sotto schiaffo e quanto giustizialismo con la bava alla bocca e tutti in galera e dagli al sistema e il più pulito c’ha la rogna, quando erano gli avversari a processo? Che schifo. Che pena.

E la cosa più spassosa, ma spassosa alquanto, è la ridda di commenti indignati e pensosi di noi intelligentoni dei media su questa deriva manettara davvero insopportabile e dov’è finito il rispetto delle persone e che fine ha fatto la presunzione di innocenza e nessuno è colpevole prima della Cassazione e, insomma, signora mia, questi pezzi dello Stato che tramano e brigano e trescano contro il capo del governo, ma che, siano negli anni Settanta? e tutto il resto del salmodiare da parte di una categoria che è stata la prima - ed è, né cambia stile - a fare carne di porco dei diritti della difesa e della garanzie degli imputati. E che sul macello di politici, poi spesso e volentieri risultati estranei, e sul mascalzonismo applicato al giornalismo, iugero prediletto dei giudiziaristi, ha costruito decine di carriere brillantissime e versatili, tanto che vedi certi mozzaorecchi degli anni Novanta trasformati in stiliti del garantismo sempre e ovunque. Chissà perché...

È una cultura marcia. Una resa incondizionata dal principio di responsabilità di una politica che si fa compilare le liste elettorali dai giudici e si fa dare la linea dalle procure e che ha pervaso tutti, dal premier all’ultimo dei rappresentanti di quartiere. E il fatto che anche il partito più nuovo usi gli argomenti più vecchi la dice lunga su che anni orwelliani ci aspettino.

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