L’anno più italiano
del Canton Ticino

Chi si ricorda “Benvenuta impresa”? La chiamata del municipio di Chiasso con rapido assalto di risposta da parte delle aziende italiane fece scalpore e attirò giornali e media nell’autunno del 2013. Oltre a più di 600 imprenditori di casa nostra, che volevano vedere chiaro nell’appetibilità di spazi e condizioni in terra elvetica.

Sono trascorsi tre anni, ma sembrano trenta, se guardiamo la realtà ticinese da vari punti di vista. Senz’altro il primo aspetto è il riscontro (poco) concreto di quell’appello e dei timori che si diffusero per la fuga delle imprese italiane nel Cantone. L’allora presidente di Unindustria Como Francesco Verga metteva in guardia i colleghi dal lasciarsi tentare dalla sirena svizzera. Quello attuale, Fabio Porro, non lo fa, perché non serve più.

La partenza è molto ridimensionata, anzi ci sono gruppi che chiudono e tornano in Italia. Nel frattempo, c’è stato lo tsunami - come fu definito da Swatch - dell’abbandono del tetto del cambio tra franco e euro lo scorso anno. Uno scossone alle imprese votate all’export , che si è pagato a lungo e che ha avuto ripercussioni pure sui frontalieri. Tra tagli di posti di lavoro e di salari.

C’è però un elemento di quell’iniziativa di Chiasso che oggi mette un po’ di malinconia. Un elemento estremamente concreto, tanto che si poteva toccare con mano: il compendio che il municipio metteva a disposizione delle aziende interessate a trasferirsi, perché cogliessero tutti i vantaggi. Roba che nemmeno Ulisse, con quella sirena, avrebbe avuto il coraggio di mettersi i tappi nelle orecchie.

Tempi per avere servizi, pure basilari, che apparivano netti e chiari come in Italia ci si può solo sognare. Ogni modalità e ogni scadenza in 72 pagine rilegate, semplici ed efficaci. Documento concreto, appunto, ma così simbolico allo stesso tempo di regole comprensibili e limpide, di un altro mondo.

Ecco, questo 2016 è stato tutt’altro che nel segno della tradizionale chiarezza elvetica, nel Canton Ticino. E si sono visti molti comportamenti che oltre confine probabilmente etichetterebbero in linea con la burocrazia italiana e anche la nostra politica.

Un anno fa si approdava al nuovo accordo fiscale tra Italia e Svizzera per i frontalieri, che doveva passare al vaglio governativo e parlamentare, ma che ha ricevuto scossoni anche per l’atteggiamento del Ticino. Perché nel frattempo il clima antistranieri è dilagato. Ma sono occorsi anche due anni e mezzo - a Berna - per applicare il referendum antistranieri e ne è uscita una legge che già vede qualcuno alzare la mano e invocare un nuovo referendum.

Nel frattempo, è partita la tassa di collegamento, ovvero sui posteggi, che doveva portare ossigeno alle casse ticinesi, ma si è presto arenata perché l’ha congelata il tribunale federale.

Forse, tuttavia, il piccolo capolavoro dal sapore italiano è il nuovo albo Lia, definito dagli stessi media ticinesi “antipadroncini”. Requisiti ardui e anche ingiusti in q ualche caso, una tassa salata per entrambi, ovvero svizzeri e italiani, con la differenza che questi ultimi possono lavorare solo 90 giorni. Risultato, sono crollate le aziende italiane che varcano il confine ufficialmente per lavorare in Ticino, anche perché si sono individuati escamotage. Del resto, se sono calati i frontalieri, sono aumentati i nostri lavoratori che si trasferiscono. Della serie, quest’anno il Ticino ci è parso in più occasioni molto italiano, battendoci a più riprese sul fronte “complicazione delle cose semplici”. Ma dovrebbe sapere che è un match impegnativo superar e gli italiani in questo: fatta la legge, trovato l’inganno.

Meglio lavorare insieme, come si è sempre fatto, per il bene di tutti.

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@MarilenaLualdi

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