Noi, stanchi di spiare
il paradiso tra le sbarre

Ridateci il lago. E restituitecelo subito, dopo anni di sofferenza, a spiare fra le sbarre un angolo di paradiso perduto, perlomeno quel tanto di veduta del bacino permerssa dalla “linea lunga” della diga. Mi piacerebbe assistere al momento in cui a Renzi verranno consegnate le cartoline con le firme dei comaschi che chiedono il suo intervento per la restituzione di un bene paesistico tutto loro. Immagino che resterà sorpreso, osservando che una volta tanto riceve delle petizioni diverse dagli sgravi fiscali.

«Toh, guarda un po’ – penso che esclamerà, con il solito piglio guascone – questi si rivolgono a me perché gli hanno scippato non soldi, non lavoro, nientemeno che il lago». Più che una petizione, è un’invocazione. Una resa, un’attribuzione estrema di fiducia. Un approdo all’ultima spiaggia, visto che finora tanti sforzi non sono serviti a nulla.

Ho la percezione che a Palazzo Chigi dovranno chiedere lumi per capirci qualcosa. Certo che si fatica a comprendere in che sorta di pasticcio si siano imbragate le aspettative di un’impresa destinata a riparare la città dalle esondazioni lacustri, per la verità sempre più rare e limitate. Un pasticcio determinato non da cattiva volontà, ma da una serie di concause: errori, decisioni sbagliate, acrobazie di percorso determinate dall’intrico di leggi e regolamenti che in Italia paralizzano spesso chi cerca di realizzare qualche iniziativa pubblica o privata di rilievo. Quando noi, firmando queste cartoline non proprio usuali, denunciamo una situazione che certo non volevamo raggiungere, è alla Nazione che ci rivolgiamo, al Parlamento che ha sfornato una dopo l’altra una catena di leggi che confliggono spesso fra loro. La faccenda si complica poi quando per eseguire le leggi entra in campo il meccanismo della burocrazia, pronto a cavillare su tutto, a spaccare il capello non in quattro ma in sedici o in venti, a chiedere defatiganti certificati di idoneità o attestazioni di conformità a regole di difficile comprensione.

Insomma, l’avversario è un Moloch che dovrebbe essere ridimensionato drasticamente quando da Roma arriva un rassicurante venticello primaverile (specie se ci sono elezioni alle porte) e invece salta fuori di continuo allorché i cantieri sono aperti e si dovrebbe filar via senza indugi, non imboccare una corsa ad ostacoli. La speranzosa cartolina comasca dietro l’immagine del lago veicola anche un messaggio di incitamento: per favore, alleggerite il peso di normative che impediscono il passo in avanti di un Paese tartaruga. Che il caso di Como serva almeno a perorare una causa d’importanza certo non solo locale.

Da ultimo, lasciatemi dire che comunque nel pasticcio delle paratie, gridando allo scandalo, siamo invischiati un po’ tutti. Quando il progetto venne presentato, molti avevano sollevato parecchie critiche, rivolte soprattutto alla complicata impostazione tecnologica dell’impianto. I soliti neghittosi, s’era detto. A lavori iniziati, i più s’erano consolati vagheggiando l’arricchimento di spazio nella passeggiata a lago. Cos’è successo a complicare e interrompere un percorso che, con qualche aggiustamento e la rinuncia a costose attrezzature, pareva tranquillo? Lasciamo perdere. È una partita che abbiamo giocato insieme ma senza una cognizione precisa di quel che stava accadendo. Una cosa è certa: l’attuale sconcio del nostro strategico balcone a lago deve finire. Ad ogni costo. Sottoscrivendo anch’io la cartolina, sono conscio di firmare una petizione al vertice dello Stato. Ciò significa che i livelli intermedi del potere non sono bastati a far ripartire il cantiere: e che se da Roma ci rispediranno la nostra missiva pregandoci d’avere ancora pazienza è da qui che si ricomincia daccapo. Ma con una consapevolezza e una solidarietà sociale rinsaldate, come mai forse era accaduto prima d’ora.

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