Riforma Regioni,
Gli errori in agguato

Qualsiasi riflessione in merito alla riforma delle Regioni deve prendere avvio da due dati di fatto. In primo luogo, è risaputo che le condizioni economiche sono profondamente differenti. Il Pil della Lombardia è pari a 299 miliardi di euro, quello della Calabria 29. Aggiungo il dato delle esportazioni. Il Nord esporta 278 miliardi di euro, mentre il Centro e il Sud 106. Queste profonde differenze sono, dall’unificazione dell’Italia, alla base di discussioni e contrapposizioni. La scelta dei costituenti fu quella di governare tali differenze attraverso le Regioni, ovvero dal basso. L’attuazione concreta della Costituzione ci ha mostrato una diversa soluzione: il governo delle differenze è avvenuto dal centro e ha avuto, quale politica dominante e pressoché esclusiva, quella di cercare di uniformare tutto il territorio nazionale. In altre parole, invece di intervenire sulle carenze strutturali del Sud e lasciare alla vitalità del territorio le leve dello sviluppo economico, dal dopoguerra a oggi si è cercato di rendere il diverso uguale.

Ebbene, questa è la rinnovata(!) impostazione contenuta nel disegno di legge costituzionale. L’idea dominante è quella dell’unità (e, quindi, del centralismo). Ritornano espressioni quali «l’unità giuridica o economica della Repubblica» o «l’interesse nazionale» che, seppur presenti in molte costituzioni federali, in Italia si traducono con l’annichilimento delle Regioni. Allora, la Regione non è più ente di governo del territorio quale espressione della sua popolazione, bensì diviene organo dello Stato per l’imposizione di una politica unitaria. Questa unità non vale per cinque Regioni, che da sempre conservano uno statuto privilegiato, per competenze e, soprattutto, finanziario.

Passiamo, dunque, al lato finanziario. Le Regioni spendono 121 miliardi di euro. Si consideri che la spesa pubblica dello Stato centrale è pari a 126 miliardi di euro, a cui vanno aggiunte la spesa pensionistica e assistenziale (319 miliardi) e quella per interessi (82 miliardi).Ebbene, le Regioni spendono, al netto delle pensioni e degli interessi, quanto lo Stato centrale. Questo testimonia l’importanza della finanza regionale nel contesto complessivo e la sua natura strategica. Ma anche in questo caso, alle Regioni non è mai stata attribuita una reale autonomia finanziaria, ovvero il potere di riscuotere tributi e di spendere, ma le si sono trasformate in un mero ente erogatore di denaro per conto dello Stato. Un progetto coerente ai propositi dei costituenti avrebbe dovuto collegare alle funzioni il potere di raccogliere tributi da spendere nei limiti delle somme incassate. Ciò avrebbe prodotto una maggiore responsabilizzazione degli amministratori pubblici, che avrebbero dovuto rendicontare l’operato agli amministrati. Diversamente, il meccanismo è stato tradotto in: spendo, poi lo Stato interviene a ripianare . Quali novità ci porta il disegno di legge costituzionale in questo ambito? Un tetto alla spesa attraverso i fabbisogni standard. Anche su questo versante, dunque, la riforma conferma la scelta di un governo che non garantisce nessuna autonomia finanziaria. Pur errata, parrebbe comunque una soluzione. Ma solo se lo Stato avrà il coraggio di far fallire le Regioni che spenderanno più del fabbisogno standard, il vincolo otterrà il risultato sperato

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