Rosberg se ne va,
ma chi crede di essere?

Sarebbe bello. Sarebbe bello essere come lui. Avere conficcata dentro di sé la capacità, il rigore, il codice, l’autodisciplina, lo stoicismo marmoreo per capire che il tempo, quel tempo, quel tempo che è stato il tuo tempo, è finito. E che nuove persone, nuove vite, nuovi volti si affacciano sulla soglia e che non è mai stata così vera la massima secondo la quale c’è un tempo per tutto. Per vincere e per perdere, per lottare e per arrendersi, per continuare e per smettere.

Il gesto di Nico Rosberg, il pilota di Formula Uno che ha annunciato il ritiro dalle corse a soli trentuno anni poche ore dopo aver vinto il suo primo titolo mondiale, è davvero clamoroso. Ma non tanto per la sorpresa planetaria, la rarissima casistica di precedenti e lo sconvolgimento che produrrà a cascata nella prossima stagione di quel gran circo, ma soprattutto per essere del tutto contraria e opposta alla natura profonda degli esseri umani. Attenzione, non tanto dei fuoriclasse dei motori così come di quelli del pallone, del nuoto, della boxe o anche del cinema, dello spettacolo o di quello che volete voi, ma proprio di tutti. È questa la dimensione che dà un valore unico alla scelta del campione tedesco.

Gli esseri umani, si sa, sono personaggi deludenti. Rigogliosi di difetti e avarissimi di doti, mille volte torbidi e raramente puri come acqua di fonte, sempre tormentati da una bestia interiore che scava e rode e ringhia e ansima e mugola nei suoi anfratti più profondi e inintelligibili. E fra le meschinità che non si possono estirpare, vero richiamo della foresta che sgorga da chissà quale recesso della psiche, dell’evoluzione o forse addirittura del peccato originale, è il rifiuto della fine.

L’incapacità di mettere un punto, di scrivere la parola ultima, di cogliere l’attimo in cui è giusto uscire di scena. E quando se ne parla, perché se ne parla, altroché, la si sbandiera come grande saggezza e buonsenso, ma è solo un argomento di conversazione, uno sdottoreggiare da chiacchieroni, da fanfaroni, da gigioni incartapecoriti che discettano di cose in cui non credono e di cui, al contrario, hanno una grandissima paura.

Perché la verità è un’altra. Nessuno vuole mollare niente. Mai. E non è questione di primi della classe, record del mondo, medaglie olimpiche, poltrone da primo ministro, stipendi faraonici, incarichi internazionali, baronaggi universitari, top management favolosi e tutto il resto che costituisce il palcoscenico di quelli che ce l’hanno fatta e che sanno stare al mondo, ma vale invece proprio per tutti. Qui nessuno molla niente. Nessuno vuole mollare.

L’incarico da vice responsabile della macchinetta del caffè, il delegato alla raccolta settimanale delle pile esauste, il capetto della curva degli ultras o del comitato degli studenti antagonisti, il posto fisso da guardalinee alla partita dei pulcini dell’Ambivere Mapello, il ruolo di maschio alfa nella cerchia dei compagni di merende o quella di padre padrone in quella della famiglia per bene o di campionessa di burraco al Circolo del the o di fenomeno del torneo di scopone scientifico o di pulcioso distaccato sindacale all’ufficio delle eventuali e varie.

Tutti lì, incollati come cozze ai nostri risibili ruoli, alle nostre levantine e patetiche quote di potere, ai nostri grotteschi orgasmi di visibilità, di ammirazione, di prosopopea, capetti, poveretti, falliti, sopracciò, quaquaraquà, miriadi di Bovary in sedicesimo, in trentaduesimo, in sessantaquattresimo, di insoddisfatti, di frustrati, di dimezzati, irrisolti, inconcludenti borghesucci filistei e farisei che si aggrappano al primo incarico che gli viene lanciato come un osso da lappare e che si trasforma nell’unica gratificazione per una vita che non trova significati altrove.

Non ce la fai a lasciare, sempre, ma soprattutto quando l’agognato risultato è raggiunto. Non ce la fai a dire che il prezzo è troppo alto, troppo invasivo, troppo stressante, e poi troppo vacuo e volatile, perché un minuto dopo è già passato e alla fine non interessa proprio a nessuno, perché a nessuno, in fondo, importa di te. E quindi te ne stai lì, attaccato al tuo trofeo, alla tua poltroncina, ingaglioffito come un mollaccione, coeso e adeso come una figurina appiccicata all’albo e procedi col crapone basso e tieni duro fino a quando, inevitabilmente, arriverà un tale – più sveglio, più squalo, più giovane, più capace? - a scollarti via a pedate oppure con un buffetto sulle spalle, che è pure peggio. Ripensate alla vostra vita e alle vostre esperienze. Quanti ne avete visti di personaggi così e quanto voi, giorno dopo giorno, assomigliate sempre un po’ di più a quelli – a quei tromboni, a quei bolliti, a quei brasati – che avete compatito per anni e anni?

Il gran rifiuto di Rosberg – compresa la sessantina di milioni di euro già assicurata dal suo contratto - è una cosa che sconvolge nel profondo l’ordine sociale e la natura più melliflua degli uomini. E quindi non va bene. Non siamo pronti per un eroe di questa stazza, di questa stoffa, di questa superiorità adamantina. E quindi non ci piace. Perché ci squaderna sotto gli occhi il niente che troppo spesso siamo. E se è così – ed è così, potete scommetterci la tredicesima – allora speriamo tutti insieme che fallisca e che fra qualche mese venga pure lui a Canossa, distrutto psicologicamente dal suo volontario prepensionamento e dal vuoto di una vita senza possesso, senza gloria e senza adrenalina, proprio come quei vecchi pugili in disarmo o come il povero Bjorn Borg, dimostrandosi così doppiamente patetico e regalandoci la più dolce e la più squallida delle vittorie. Ci ha provato, ma ha fallito: anche lui è un mediocre come tutti gli altri.

Insomma, diciamoci la verità: ma chi crede di essere questo Rosberg?

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@DiegoMinonzio

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