Si muore di fisco
e la politica non lo vede

Anche se giugno ci porta entro l’estate, per molti il suo arrivo non è accompagnato da sentimenti piacevoli. Infatti, questo mese è infittito da una serie di scadenze fiscali.

Se già a maggio non si scherzava (versamenti di Irpef e Iva, contributi Inps e Inail, bollo auto, ma la lista completa sarebbe troppo lunga), ora si è chiamati a pagare gli acconti dell’Imu, la nuova Tasi e la Tari, l’Iuc e molti altri versamenti di vario tipo. In definitiva, si avrà a che fare con una gragnola di colpi le cui conseguenze si faranno sentire. Chissà: magari qualcuno inizierà ad aprire gli occhi. Forse comincerà a capire che il riformismo renziano, tanto premiato dalle urne, non può salvare un’economia come la nostra, che sta attraversando una crisi profonda. Quello il ceto politico sembra in particolare non vedere e non capire, è che qui si muore di tasse. Per due motivi strettamente connessi.

In primo luogo l’entità delle risorse che lo Stato sottrae al mondo produttivo è tale che il sistema delle aziende non regge. Al di là dei balletti sulle cifre tra chi colloca al di sopra o al di sotto del 50% il peso dello Stato sull’economia, è evidente che nell’Europa dell’ultimo secolo abbiamo visto quintuplicare la pressione fiscale e che in Italia l’impennata dei prelievi tributari è stata particolarmente significativa.

Un’alta tassazione comporta che la maggior parte delle decisioni non sono assunte dai privati, ma dall’apparato politico e burocratico. Sull’utilizzo delle risorse complessive conta sempre meno chi produce, rispetto a chi gli sottrae quella ricchezza usando l’apparato tributario.

Un effetto tra i principali di tutto ciò è il diffondersi di comportamenti parassitari e se un certo parassitismo è fisiologico in ogni società, è pur evidente che quando si supera una data soglia non c’è più futuro per nessuno.

Oltre alla dimensione quantitativa di un sistema fiscale che ormai è esoso oltre ogni ragionevolezza, c’è pure – e questo è il secondo punto – la questione qualitativa. Chi in Italia cerca di creare ricchezza è distrutto dalle dimensioni del prelievo, senza dubbio, ma anche dal fatto che le regole sono sempre più complicate, barocche, astruse, tortuose. Alla fine, questo è un altro costo aggiuntivo. Ormai le sigle dei tributi si moltiplicano e quasi nessuno è in condizione di dire quanto deve pagare per questo o quel nuovo balzello.

In sostanza, si ha la sensazione di essere vicini al collasso. Le imposte si moltiplicano, la quantità di risorse sottratte cresce ininterrottamente e al tempo stesso il debito pubblico registra un record dopo l’altro.

In tale fase, si misura facilmente l’inutilità di ogni gradualismo. Il disastro del fisco italiano obbliga a prendere atto che solo scelte radicali, che disboschino la giungla dei tributi, e solo una coraggiosa riduzione della spesa pubblica – tale da permettere un netto abbassamento del carico tributario – possono darci un futuro.

Il “renzismo” oggi in voga, al pari di simili moderatismi del centrodestra, incarna l’ingenua illusione che ci si possa rimettere in piedi senza intaccare i privilegi cresciuti attorno alla spesa pubblica, senza tagliare i finanziamenti al Sud e alle imprese, senza procedere a un deciso ridimensionamento degli organici della funzione pubblica.

Una cosa è chiara: molti tra coloro che a giugno vedranno svanire i loro soldi e dovranno pure perdere ore nella compilazione di moduli su moduli, mai sicuri di non aver fatto errori, non hanno la consapevolezza che quella loro pena personale rappresenta, in realtà, la questione politica cruciale. Se acquisissero tale consapevolezza, la situazione potrebbe cambiare in tempi rapidi.

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