Fusi: «Io Diego e Favini, il mio bel calcio»

Protagonisti Diceva che non sbagliavo mai un passaggio. Per forza (ride, ndr), i miei passaggi erano corti...

Quattro giri di campo di Bellagio, sotto il sole di agosto, per raccontare una storia. La storia di Luca Fusi, ex centrocampista di Como, Sampdoria, Napoli, Torino riapparso a sorpresa come allenatore della Bellagina, Prima categoria. Fusi era l’uomo silenzioso del centrocampo, quello che annullava Platini e Zico, quello che vinse lo scudetto nel Napoli di Maradona senza dire una parola. Ma adesso ha voglia di parlare, di chiacchierare, di raccontare. Perché i suoi silenzi erano solo la scarsa indole a urlare per farsi sentire, ma dietro quei proverbiali silenzi, c’era e c’è un uomo intelligente, pacato, ragionevole. Che ha fatto innamorare tutti gli allenatori e i compagni con cui ha lavorato, per classe e serietà.

Che ci fa Fusi a Bellagio?

Io abito a Lezzeno dal 1993. Mia moglie è di lì. Oddio, ci sono stato poco, per via del lavoro. Ma ormai sono uno di qui. Da sei anni abbiamo organizzato camp estivi con i ragazzi della Bellagina, poi da cosa nasce cosa ed è arrivata questa opportunità: gestire il settore giovanile e allenare la prima squadra.

Come Ardito all’Alta Brianza: stesso ruolo, stesso imprinting comasco. E poi Centi, Gattuso... Sembra una scia.

La scia del settore giovanile del Como. Anche in generazioni diverse, con persone diverse, ma quella scuola ha indubbiamente lasciato il segno.

Lei è nato con Mino Favini, che poi a fine carriera la portò a lavorare nel settore giovanile dell’Atalanta.

Favini è stato un grande maestro. Era un fenomeno. Aveva la capacità di vedere prima degli altri, dalla postura, dal tocco di palla, se uno aveva talento.

Nel calcio computerizzato di oggi, dominato dai mercati esteri, uno come Favini avrebbe ancora spazio?

Sì, perché sono cambiati i metodi, ma quel fiuto, se ce l’hai, conta lo stesso.

Come si innamorò di lei?

Diceva che non sbagliavo mai un passaggio. Per forza (ride, ndr), i miei passaggi erano corti... Comunque ero gracilino, un altro non mi avrebbe aspettato, o mi avrebbe mandato via a crescere da un’altra parte. Invece lui mi volle sempre lì.

Perché lei non ha fatto carriera da allenatore?

Credo di essere più un istruttore che un allenatore. Ho lavorato anni nel settore giovanile dell’Atalanta, poi al Cesena. Ho provato anche con le prime squadre e non è andata nemmeno malaccio. A Bellaria e a Marcianise belle stagioni. Ma poi non è girata, una società dov’ero a lavorare è fallita... Poi mettiamoci il fatto che non ho procuratore, e che adesso ci sono tecnici spinti dagli sponsor. Normale, con la crisi che c’è. Sai, nelle giovanili hai un referente unico, nelle prime squadre cominciano le correnti dei dirigenti, uno dice una cosa, l’altro un’altra... Io sono uno testardo, non molto diplomatico. Questo progetto a Bellagio fa per me. Valorizzare i giovani del territorio, farli crescere, aiutare la prima squadra con loro e poi, magari, chissà, aiutarli a fare il salto.

Che allenatore è Fusi?

Uno che non impazzisce per le tattiche, gli schemi, le alchimie. Preferisco puntare sul rapporto umano.

Va bene per il settore giovanile, ma da allenatore di una squadra nei professionisti, non avrebbe potuto rispondere così.

Lei dice? Io penso il contrario. A Marcianise abbiamo fatto bene per il rapporto di stima e fiducia che c’era tra di noi e nel gruppo. Un giocatore, se ha qualcosa che non va, magari tira indietro la gamba. L’empatia fa più degli schemi.

Macchina del tempo. Pronto a salire?

Partiamo.

Il Como.

Seghedoni mi faceva saltare la scuola per farmi allenare con i grandi. Mi fece debuttare in A nel 1982. Ma quello che mi diede le chiavi fu Burgnich. Il primo anno mi portò aggregato a San Benedetto. Pensavo una gita premio, invece mi ritrovai titolare. Da non credere. L’anno dopo, quello della promozione in A, pur di farmi giocare mi metteva dappertutto.

Poi arrivò Bianchi.

Quando andò via Burgnich piansi. Avevo perso un padre. Ma nel primo viaggio in pullman verso il ritiro di Chiavenna, Bianchi mi parlò tutto il tempo e capii che avevo chances. Puntava su di me.

Infatti ci fu un bel rapporto.

Mi portò a Napoli, e vinsi lo scudetto. Credo che si rivedesse in me: stessa idiosincrasia per la visibilità, per le interviste, per il mostrarsi.

La partita indimenticabile?

Como-Milan in B, nel 1983. Vincemmo 1-0 con gol di Palanca, ma non è quello il motivo. A un certo punto Jordan mi fa un brutto fallo, io finisco dolorante a terra e vedo la squadra, tutti i dieci compagni, correre all’unisono a soccorrermi e ad allontanare lo scozzese. Quella scena mi commosse: capii quanto ci tenevano a me e quanto il gruppo era unito. Era una squadra davvero speciale, trovai maestri come Matteoli e tutti gli altri.

Giocava con Centi.

Eravamo perfetti insieme. Una volta andava uno, una volta andava l’altro. Il Gianca mi diceva: vai Luca, tocca a te. Un metronomo, un direttore d’orchestra.

Lei passa per essere l’uomo che annullò Platini.

Certo, l’ho affrontato quattro volte e non ha mai fatto gol... Mica cinquanta, eh... (ride ancora, ndr). Il fatto è che Bianchi mi disse subito: quest’anno andrai su Platini, Socrates, Zico, Maradona. Ah, andiamo bene, mi dissi. Ma me la cavai. E aggiungo: mai un litigio con questi campioni. Bello spessore umano.

Vialli e Mancini?

Andai alla Samp dove comandavano loro, ma in senso buono, Era la loro Samp, stavano costruendo lo scudetto. Bello.

Poi lo scudetto al Napoli. Maradona?

Servirebbe un libro. Grandissimo per il rapporto che aveva con i compagni. Faccio un esempio. Se gliela davo troppo lunga o troppo corta, applaudiva lo stesso e faceva cenno che aveva sbagliato lui. Incredibile. Così ti stimolava. Era sempre dalla nostra parte.

Lo scudetto?

In qualsiasi altra squadra la fascia che ti segue è 10-60 anni. A Napoli è 2-95. La differenza è quella: tutta la città è coinvolta.

Il Toro?

La mia squadra. Mondonico è stato il mio totem. Quando perdemmo la finale Uefa con l’Ajax, io non giocai l’andata per squalifica e alla fine disse: ci fossi stato tu, avremmo vinto. Esagerava, ma spiega il rapporto. Mi fece capitano, con lui alzai la Coppa Italia. Sarei andato nel fuoco per lui. Al funerale è stata molto dura.

Segue il Como?

Sì, sono andato a vedere anche delle partite lo scorso anno. Perché mio figlio gioca in Romagna, e quando torna vuole andare sempre a vedere il Como. E io ci torno volentieri, incrocio Centi, Fontolan... gente che mi ha aiutato a crescere. Abbiamo una chat. Però...

Però?

Ehm... adesso ho un derby personale.

In che senso?

Mio nipote, il figlio di mia sorella, gioca nel Lecco. Si chiama Galli. Sono andato a vedere i playoff di C. Anche quella è una bella avventura.

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