Ma siamo davvero
un paese razzista?

In un’intervista rilasciata a Repubblica qualche mese fa, il giocatore della Juventus Pogba ha raccontato che, quando decise di lasciare il Manchester United, il suo vecchio allenatore, Alex Ferguson, gli suggerì di andare a giocare ovunque, ma non in Italia, perchè «l’Italia è un paese razzista».

Se è questo lo stereotipo che, all’estero, si va diffondendo del nostro paese, dovremmo iniziare a riflettere sulle nostre recenti mutazioni identitarie che, in modo del tutto inaspettato, sconfessano l’immagine di un paese storicamente affabile, ospitale e socievole.
Siamo, dunque, davvero diventati, come diceva Goethe, un “paradiso abitato da diavoli”? Sarebbe troppo semplicistico credere che la questione riguardi solo noi visto che, come hanno dimostrato le ultime vicende, anche gli altri partners europei non se la passano meglio. Il fatto è che, in pochi anni, da paese di emigranti siamo diventati l’agognata meta di infinite orde di immigrati.

La verità è che il crollo delle dittature dell’impero sovietico, a cui hanno fatto seguito le guerre nel mondo arabo, hanno impresso alla Storia un cambio di direzione e un’accelerazione che, per lunghi anni, l’Italia e l’Europa hanno trattato con assoluta indifferenza: come se la cosa non li riguardasse. Bisognerebbe partire da una dato storico che ci è sempre sfuggito: cioè, il capitalismo è congenitamente incapace di ripartire la ricchezza che produce. Per questo motivo sarebbe utile rammentare il monito di Marshall: «Se un ricco signore illumina la propria strada lasciando al buio tutte le altre, tutti si recheranno a curiosare». Clandestini, clochards e prostitute sono facce diverse della stessa medaglia: quella della povertà. Dobbiamo ammettere di avere sbagliato. Abbiamo creduto per decenni al dogma del Pil e della crescita infinita e, senza farci tanti problemi, abbiamo sfruttato la parte povera del pianeta che adesso ci presenta il conto. I poveri non si accontentano più dei resti dei nostri pasti, ci chiedono di sedersi alla nostra tavola. Etica e religione discutono del diritto dei poveri ad essere nostri commensali ma l’economia ha già chiaro il responso. Aveva ragione Moravia nel ritenere che, ancor più del comunismo, la povertà rappresentava un dramma che non ci avrebbe risparmiato perché «se in un cortile ci possono stare venti persone e ne entrano cento, inevitabilmente saranno calpestate le aiuole».

Ammettiamolo: l’Occidente ha sempre adottato una logica di dominio verso i paesi poveri. Abbiamo finto di aiutarli stanziando denari che i loro governi usavano per acquistare le nostre armi. Solo ora abbiamo capito che, per proteggere le nostre aiuole, avremmo dovuto esportare il nostro sapere senza ricoprirli dei nostri cascami. Bisognava illuminare le loro strade e invece ci siamo illusi di escluderli dalle nostre: in questo modo ci siamo condannati all’ansia di saperli alle nostre porte. A cosa serve la ricchezza senza la serenità di poterla godere? Questo è l’interrogativo, ormai ineludibile, a cui siamo costretti a rispondere. E’ vero, l’Europa è chiamata a fare la sua parte ma occorre vigilare sul pericolo che le inadempienze dell’Europa finiscano, alla fine, per rappresentarci come un paese razzista.

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