Ricetta Sodini: «Giocare per vincere
o per non perdere? Cantù sa cosa fare»

Alla vigilia della Supercoppa esce allo scoperto il tecnico biancoblù

Concetti di base e ambizioni («puntiamo a vincere tutto, puntiamo a vincerle tutte») non cambiano. Anzi. Piuttosto per Marco Sodini, tecnico dell’Acqua S. Bernardo Cinelandia Park, alla vigilia della prima partita ufficiale in Supercoppa, è arrivato il momento di aggiustare il tiro e convogliare emozioni ed entusiamo che arrivano dall’ambiente. Dentro e fuori la squadra.

Coach, ci siamo. Ormai è finito il tempo della pre season...

Come l’araba fenice, proprio dalle sue ceneri, la Pallacanestro Cantù è pronta a risorgere. Sono convinto che questa stagione possa diventare entusiasmante. Per merito di tutti. E rimanere permeata di entusiasmo per costruire insieme un futuro radioso.

Siamo già alla programmazione a medio-lungo termine.

Siamo nella condizione di dire quello che vogliamo fare. E che lo vogliamo fare per poi replicarlo anche a livello superiore.

Da cosa le deriva questa ennesima zampata di entusiasmo?

Da quel che ho visto, dai programmi che conosco e da quello che ho trovato. Anche la storia dell’estinzione definitiva del debito e della possibilità di lavorare da qui in avanti per il futuro è linfa allo stato puro.

E vi obbliga a...

A prenderci il tempo per lavorare in pace e tranquillità. Abbiamo lo spazio e la serenità, se il Covid ci lascerà in pace,di avere l’ambizione, ben sapendo di poterci divertire nel viaggio che ci porterà a realizzare questa stessa ambizione.

Non è quindi una marcia indietro, la sua, rispetto a quelle dichiarazioni estive forse un po’ smargiasse, quindi?

Macché. Anche una ricetta fatta bene ha bisogno di tempo e di buoni ingredienti, che da noi si chiamano giocatori, staff, società e gente. Per cucinare una grande stagione non abbiamo bisogno di avere la frenesia del piatto pronto subito, ma serve che cuocia nella maniera giusta.

Coach, siamo sicuri di non essere in presenza di un’operazione di “maniavantismo”?

Le cose che ho detto continuo a pensarle, senza dubbio. In più so anche che la stagione sarà lunga e che potrebbero esserci momenti - giusto per rimanere nel tema - per un’aggiustatina di sale, un’aggiunta di un po’ d’acqua e far cuocere, magari, anche un minuto di più. Lo sappiamo e siamo preparati anche a questo, eventualmente

E con la collaborazione di tutti.

Anche perché è giunto il momento, presa coscienza di situazione e ambizioni, di cambiare atteggiamento, mollare le visioni catastrofistiche del passato, cambiare l’umore e supportare questi ragazzi, che sanno bene perché sono qui.

E perché li avete scelti. Materia prima di grande qualità.

Non solo abbiamo preso le materie prime, ma gente seria e matura che conosce perfettamente il peso della responsabilità che Cantù chiede loro. L’atteggiamento è quello giusto e le necessità della società sono state recepite. Ora è arrivato il tempo di giocare le partite. Magari ritrovare e abbracciare la nostra gente. Abbiamo avuto tutti, in questo periodo, tanta voglia d’incontrarla.

Il peso della pressione potrebbe essere un’arma a doppio taglio, però.

Non vorrei che si fosse troppo preoccupati di quel che dobbiamo fare. Il nodo è proprio questo: non preoccuparsi. E la pressione, quando c’è, che venga gestita in modo propositivo e non autodistruttivo.

Si arriva da un anno nero con retrocessione. Un minimo di diffidenza iniziale è anche comprensibile.

Non fa una piega. Però adesso obiettivamente c’è una distanza storica tra quel che dovremo andare a fare e il recente passato. È da troppo tempo, infatti, che non succede di giocare per vincere e non per non perdere. Con un ruolino magari di quattro vittorie ogni cinque partite la differenza è notevole e la possibilità di riacquistare più in fretta la serenità è maggiore.

E la squadra come sta reagendo?

Il mio modo di allenare è un bel termometro, perché imposto quasi tutto il lavoro sul dialogo. Quindi ho il polso della situazione. Ho a disposizione una qualità culturale altissima, da tutti i ragazzi. Che hanno anche un elevatissimo grado di consapevolezza. Me ne accorgo, ad esempio, da certi momenti di insoddisfazione avvertiti durante la pre stagione o nelle amichevoli. È sintomo dell’altissima autoesigenza di fare bene che c’è dentro di loro. E a me questo fatto spiace, la perfezione è noiosa.

Quindi pronti a prendersi, ognuno, le proprie responsabilità?

Assolutamente sì, anche perché tornando al discorso che abbiamo fatto prima, a inizio settembre perfetto non lo diventi di certo. Non è mai capitato. Poi la crescita dipenderà anche dalla gestione degli inevitabili momenti di calo o difficoltà, sono step intermedi che dovremo vivere insieme. La stagione è lunghissima, ci servirà arrivare pronti ad aprile. Di una cosa sono certo: non vogliamo essere ossessionati, ma diventare ossessionanti.

Anche perché, parliamoci chiaro, questa squadra si è rinnovata per nove decimi.

Infatti. Pur in presenza di tante buone cose, siamo ancora un cantiere aperto. I ragazzi non hanno mai giocato insieme, si stanno conoscendo e stanno prendendo le misure.

A proposito di ossessioni, cosa la preoccupa di più?

Paradossalmente il modo in cui si vivrà l’errore. Che per me, specie in questa situazione, non è mai un problema. Prendete Terrell McIntyre: nella stagione in cui ho avuto la fortuna di allenarlo tirava con il 38% da tre. Vuol dire che su 10 tiri, ne sbagliava 6. Eppure è sempre entrato in tutti i quintetti ideali, perché faceva quel che serviva alla squadra e quel che la squadra aveva bisogno arrivasse da lui. Cercare e trovare serenità passa anche attraverso situazioni come queste.

Lei come sta? È sereno?

Io sono sempre sereno. Vorrei lo fossero tutti e che sparisse quel senso di inquietudine che a volte c’è ancora nell’aria. Viviamo la nostra ambizione come punto di partenza e sgomberiamo il campo dalle negatività.

E l’ambiente?

Vedo tutti belli impegnati a cercare di fare le cose per il meglio. Anche questo è un ottimo segnale.

Tanto spazio alla preparazione, ma anche tanto allo svago e allo stare insieme. Tutto calcolato?

Rispetto alle mia abitudine, abbiamo fatto ancora troppo poco. Non siamo riusciti ad andare in ritiro e quindi non siamo potuti stare a stretto contatto, ora stiamo cercando di far di tutto per cementare il gruppo. Sei, sette giorni insieme per una squadra, specie se nuova come la nostra, sono il top, quello che ti toglie dall’autoisolamento dell’effimero e delle nuove tecnologie. Ne parlavo l’altro giorno con Fabrizio Frates: Recalcati, Della Fiori e Meneghel si vedono ancora adesso perché sono stati grandi amici da compagni di squadra. Quel che abbiamo fatto comunque va molto bene: bello ad esempio girare per il centro di Como, suscitare curiosità e farsi riconoscere.

Scelta dunque ben ponderata?

Sì. C’è bisogno che i ragazzi si conoscano tra loro, ma che conoscano anche l’ambiente che li ospita. Perché la conoscenza porta sempre al confronto. E il confronto è uno dei valori della diversità. Che poi, la diversità, è anche e soprattutto crescita.

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