«Che incubi nei giorni del coma
Tra la vita e la morte per il Covid»

La testimonianza di chi ha vissuto 10 giorni intubato in rianimazione

Ora, mentre ricorda, riesce anche a riderci sopra. E a utilizzare l’unica arma in grado di esorcizzare la paura e l’ansia: l’ironia. Ma il racconto di Antonio Sorvillo, in forze alla polizia giudiziaria del palazzo di giustizia di Como, sui suoi dieci giorni di coma per combattere il Covid, giorni caratterizzati da incubi ricorrenti, sembra a tratti una sceneggiatura horror.

La drammatica seconda ondata non aveva ancora travolto la nostra provincia, quando Sorvillo si è ritrovato a letto con quella che non era una semplice influenza. «Sono entrato al Sant’Anna il 23 settembre con 40 di febbre, dolorante e sofferente. Il giorno dopo mi hanno messo la c-pap (il casco per respirare ndr). Il 27 mi hanno intubato e sono finito in coma».

Ad annunciare la necessità di un trasferimento rianimazione, una anestesista del Sant’Anna: «Entra in stanza questa dottoressa e mi dice che purtroppo gli scambi respiratori non insufficienti e dovevo essere intubato e, successivamente, trasferito all’ospedale Sacco di Milano» in quei giorni il punto di riferimento per le terapie intensive per i malati Covid. «Ricordo che mi hanno fatto chiamare mia moglie, ma di quella telefonata non ho una grande memoria. Devo averle detto che debiti non ne avevo lasciati e che l’amavo. Poi la dottoressa mi ha chiesto se poteva procedere e a questo punto le ho chiesto: “Ho alternative?”».

In rianimazione

Così Antonio Sorvillo si addormenta e si ritrova in una terra popolata da incubi.

«Durante quei dieci giorni di coma - racconta - il mio cervello ha lavorato. E ha lavorato parecchio. Avevo questi incubi ricorrenti, in cui mi trovavo in varie località del mondo, dove regolarmente venivo ammazzato. Ricordo di essere stato ucciso in Francia, in Olanda, nelle campagne vercellesi, a Miami, in Messico. E tutte le volte la morte avveniva sempre nello stesso modo: mi riempivano la gola di liquidi e così venivo ucciso». Facile associare quel tipo di morte con la presenza del tubo in gola, dell’ossigeno soffiato a forza per far ripartire i polmoni, mentre i medici erano impegnati a sconfiggere il maledetto virus.

«Dopo dieci giorni mi hanno risvegliato - prosegue Sorvillo - e mi sono ritrovato spaesato e legato al letto». Ancora in preda all’eco angosciante dei suoi incubi: «Trovandomi immobilizzato, mi sono sentito in pericolo proprio come sentivo di esserlo durante i sogni. E così ho reagito male. All’infermiere gridavo: “Slegami, slegami e lasciami andare”. Avevo paura che mi ammazzassero».

Tolto il tubo e risvegliato, il lavoro del cervello non era però ancora terminato. «Nei primi giorni hanno proseguito con una sedazione parziale, e questo ha contribuito a creare delle allucinazioni. Ricordo due cose molto bene: l’enorme orologio appeso alla parete e la finestra, dalla quale si affacciavano i medici e gli infermieri per tenere sotto controllo noi pazienti. Ecco, per me quella stanza al di là del vetro era un locale di volta in volta diventata un laboratorio utilizzato per fare esperimenti, oppure un dormitorio dove tenevano dei bambini, o ancora un negozio dove vendevano un giorno coperte, un giorno gatti persiani».

E per quanto quella stanza cambiasse di volta in volta funzione, una cosa è sempre rimasta la stessa: «La convinzione di essere circondato da cinesi. Cinesi quelli che facevano gli esperimenti, cinesi quelli che tenevano i bambini, cinesi i proprietari del negozio di gatti o di stoffe e tessuti».

Un’allucinazione così reale, che Sorvillo ricorda il suo scetticismo di fronte alle risposte di medici e infermieri alla domanda: di dove sei. «Mi rispondevano di Milano o di Cinisello o di Monza e io ridevo e dicevo loro che mi stavano prendendo in giro e che invece erano cinesi. Quanto volte mi hanno dovuto ricordare che quella era la rianimazione del Sacco e che io ero stato ricoverato lì per colpa del Covid».

La prima chiamata alla moglie

Scomparsi incubi e allucinazioni, gli ultimi giorni in rianimazione hanno portato altri pensieri: «All’improvviso ti rendi conto che sei tagliato fuori dal mondo. Che non sai come stiano i tuoi cari, cosa stiano facendo, cosa accada oltre quella porta. Inizi a fare i conti con te stesso». Poi arriva il momento di tornare in reparto: «Qui, finalmente, per la prima volta dopo tre settimane ho l’occasione di chiamare mia moglie. Ho dovuto aspettare un attimo prima di comporre il numero, e lo stesso appena ho sentito la sua voce... beh, è facile immaginare cosa sia successo». La commozione si ripresenta puntuale, ancora adesso che sono passati da quei giorni quasi quattro mesi.

Entrato il 23 settembre, Antonio Sorvillo esce dall’ospedale il 4 novembre: «Infine torni a casa e c’è tutto un nuovo lavoro da fare. Fai due passi, e sei tutto un dolore. Fai due gradini, e ti manca il fiato. Il tuo corpo è pieno di segni per i tubi, le siringhe, le maschere. Sono le cicatrici che mi ha lasciato il Covid». Visibili, ma comunque meno spaventose del ricordo di quegli incubi.

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