E il grande Clerici
ora scrive in dialetto

Il comasco, firma de "La Repubblica" e raffinato scrittore di best seller come "I gesti bianchi", ha scritto un articolo in "comasco", come introduzione a un volume ticinese, che auspica l'arrivo del centralino dialettale - su modello di quello della nostra città - anche in Svizzera.

di Bernardino Marinoni


È un paradosso che le sole 2 pagine in italiano delle 135 di "Un dialètt par girà mezz mund" di Piergiorgio Baroni (Fontanaedizioni, Lugano) rechino la firma Matthias Werder. Ticinese, come giustamente rivendica, a tutti gli effetti, ma tedescofono d’origini, è direttore dell’Illustrazione ticinese, periodico sul quale mese dopo mese da qualche anno Piergiorio Baroni tiene una rubrica scritta in dialetto. Ma non "dialettologica", per così dire. La scommessa a suo tempo accettata da Werder è quella di scoprire se in dialetto si può scrivere di cose d’oggidì, non solo «dal Tesin d’un temp, quel tacàt là ala manera da viv d’una volta». E che sia stata vinta lo attesta l’illustre Gianni Clerici, cui Baroni ringrazia d’aver «Scrivut un "pensiero comasco"» così che «da chì e da là dala ramina», l’antica rete fiscale antricontrabbando, si possa rfletere sul panorama espressivo che si schiude, «sa vèrd fora dal San Gotàrd fin ala Padania». Clerici, «giornalista e scritòr», che si dice «bisex italo-sguizzer», ha casa a Rovereto, nel Grigioni italiano, e, nelle note di Baroni, dopo aver giocato a tennis al Tennis Club Lido di Lugano, quando si siede, registra ancora Baroni, «quand che al sa sèta giò al parla dialètt». E con felice contagio, in un’affettuosa premessa scritta appunto in dialetto pur dicendosi straconvinto «che l’ingles l’è el latin del dì d’incoeu» ammette che Baroni non ignora il fatto, rifiutando però di considerare il dialetto antidiluviano e invece rendendo conto da non credere «de miracoj d’incoeu, e no de Carlo Codega». Clerici, occhieggiando da "Un dialètt par girà mezz mund" ritratto in una spiritosa foto che «l’è da La Provincia da Comm», trova il libro, dove Baroni ha raccolto una quarantina dei suoi scritti in dialetto, «divertent come un  paradoss» e nonostante tanti dubbi si dice «d’accordi cun tutt i sentiment» col suggerimento di dedicarsi «al nost dialett». Dubbi non ne ha, o ne ha meno, «el Baron», che nell’impresa si è buttato con grinta ostinata e con il passo dell’alpinista che è. «In fin di cunt - annota Clerici - l’è reussii a fass capì di tibetani, parlenden dialett sul tecc del mond». Così si comincia a spiegare quel titolo globetrotter, "Un dialètt par girà mezz mund": Piergiorgio Baroni, Pier, una lunga militanza al "Corriere del Ticino", sostiene che gli è accaduto, in qualche parte del pianeta di non sapersi spiegare. «E alura ho cominciàt a cuntala su in dialètt». Il suo dialetto, che è anche quello «dala ferrovia», come si dice in Ticino, intendendo non che lo parlano i controllori, ma che lo si capisce da Airolo a Chiasso (e oltre: «Senza ona lengua cher la sia in comenion al Tesin e ai cinque pais italian de confin» scrive Gianni Clerici, la comunità insubrica sembrerebbe l’Unione europea che «politicament e umanament l’è on fantasma»). In dialetto, e un po’ con mani e occhi, «ta lì, anca su par i montagn dal Tibet» - dove Baroni era stato con una spedizione ticinese sull’Everest e «dalla parte degli 8 mila» aveva allora orecchiato discorsi tra vette altissime traducendone (in italiano) la curiosità per «una montagnetta», il Ceneri, delle parti da dove giungevano questi che si arrampicavano - «som stài bon da fass capì». Scrivendo in dialetto Piergiorgio Baroni sa di non rispettare sempre accenti e desinenze, ma appunto, non è un dialettologo. È, un cronista, invece, che non si rassegna a considerare il dialetto un reperto e per sfida lo utilizza da opinionista, presente e attento all’attualità. Il centralino telefonico del Comune di Como risponde (anche) in dialetto? «Benvegnuu in dal sit dal comun da Comm» dove si è trovato spazio «anca par i comasch che i mòla mia cunt la tradizion». Di più: «Al saress bell», incita Baroni, «magari domà cambiando denta l’italian (in di ufizi e in di istituzion) cunt una quei parola, o manéra da dì in dialètt. In dosi, come sa dis, oméopatic, cunt una certa misura», lo si facesse anche in Ticino. «Da lég e da scultà: ghè sempar da imparà», scrive ancora Baroni, citando tra gli altri il nostro Emilio Magni «che sota al ciel da Lombardia al ma porta a spass cunt paròll che cugnossom anche num in Tesin», mentre sull’insegnamento del dialetto a scuola («come ul mostro da Lochness, ta chì che vegn fora la question») è meglio «che al sa parla fora e via, che la gént la pòda mett dénta anca di espression che l’italian a cognoss mia». Un’opinione infiorata dal racconto di quello che in un dancing di Mendrisio avrebbe chiesto a una signorina, in italiano, «Vuole ballare?» e che «al s’è quasi stremìt dala risposta, che l’è rivada come un fulmin: "Istu, sum chi per quell!"». I rischi «da italianizà ul dialètt o dialettizà l’italian» ci sono, però «casciàg denta in dal discors in italian na quai batuda in  dialètt: come sa diis, al marca ul terén», perché citando un poeta svizzero, Fernando Grignola, che del dialetto è maestro, tra «Invasion da nord, da sud, / sem furastée senza radìs». E se anca «gira uan notizia mia tant bèla: "Perderemo tremila lingue-Entro il 2100 si dimezzerà il numero degli idioni"», Pier Baroni non ha dubbi: «Num tegnarem dur».

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