Auguri Paolo Conte

Compie ottant’anni
l’avvocato in musica

In traguardo personale festeggiato con la discrezione di sempre. La carriera quasi riluttante, i trionfi, il “debole” per Van De Sfroos

Paolo Conte festeggia 80 anni con la discrezione che ha accompagnato tutta la sua vita e le sue carriere. Quella principale, riportata sui documenti alla voce “professione” è, notoriamente, quella di avvocato. Un titolo che, a un certo punto, si è trasformato in un epiteto. Quel punto risale alla prima metà degli anni Settanta, quando quel signore astigiano già vicino alla quarantina – era nato nel 1937, nel dì della Befana – diede ascolto a chi gli diceva che avrebbe dovuto smettere di usare “Una faccia in prestito” e metterci la sua. Aveva fondato un combo jazz (americanizzandosi in Paul Count), aveva regalato canzoni a Celentano, Gigliola Cinquetti, alla Caselli, a Patty Pravo, all’Equipe 84, a Bruno Lauzi, a Enzo Jannacci, perfino a Pierino Focaccia e a Giusy Romeo (ovvero Giuni Russo molto prima del successo).

Su commissione

Scriveva su commissione, ma alcuni di quei brani erano già memorabili: “Chi era lui”, “La coppia più bella del mondo”, “Tripoli 1969”, quella di Focaccia era la divertente “Santo Antonio, Santo Francisco”, e poi i capolavori assoluti, “Azzurro”, “Insieme a te non ci sto più”, “Onda su onda”, il manifesto “Genova per noi”, “Una giornata al mare”. Poteva condurre per sempre quella doppia vita: di giorno in tribunale, la sera a scrivere musiche da solo o in coppia con il fratello Giorgio Conte cercando di piazzarle a qualche big. Invece, titubando non poco, ascoltò il consiglio di chi lo spingeva a esibirsi e a incidere le sue canzoni.

Il gruppo del Club Tenco, significativamente il canturino Antonio Silva, ricordano ancora come epocale la sua prima esibizione a Sanremo al festival della canzone d’autore (nel tempo, Conte sarebbe stato il più premiato, con ben sei targhe). E non era facile amarlo, allora. La sua voce era piuttosto sgraziata, non sapeva ancora bene come appoggiare i suoi testi immaginifici a musiche che sembravano esistere da sempre, intrise di jazz anni Trenta, di rare suggestioni pop, di riminiscenze napoletane e francesi, anche di folk nostrano.

Albero robusto

I suoi primi album sono frutti acerbi, forse, ma di un albero che si poteva intuire robusto. Che svettava da solo in un panorama completamente diverso: Conte cantava “La ricostruzione del Mocambo”, “Alle prese con una verde milonga” e “Via con me” negli anni della disco music, del rock progressivo, dei cantautori impegnati (significativa, in questo senso, la versione rock di “Un gelato al limon” operata da Dalla e De Gregori nel tour di “Banana republic”, distante anni luce dallo spirito dell’originale).

Giunge agli anni Ottanta già quasi trasformato in un’istituzione, mentre la Francia, prima, e poi il resto del mondo si accorgono di lui. Lo paragonano a Tom Waits (quello romantico, prima dell’era dei chiodi e delle betoniere), a Randy Newman, qui chiunque scriva canzoni al pianoforte subisce il confronto con lui (anni fa Vinicio Capossela faceva sapere di non gradire domande su Waits e Conte), ma l’avvocato ha sempre fatto genere a sé.

Arte poliedrica

Nel 2017 compie trent’anni “Aguaplano”: forse non è il suo disco più bello (ognuno ha il suo preferito), però intanto è doppio e, viaggiando sull’onda di ventuno brani offre il quadro più esauriente di un’arte poliedrica, dove si passa da Parigi a Manaus in poche battute con una sosta a New Orleans. È inutile stilare un arido elenco degli album e delle canzoni più belle: non è artista da “hit”, ogni composizione ha un suo perché, ogni raccolta ha i suoi estimatori, ogni concerto ha una sua vita, che si esibisca con una piccola formazione o con una grande orchestra, sempre attento ai particolari (anni fa chi scrive fu protagonista di un fortuito incontro in ascensore dopo una performance al Casinò di Campione: fu lui a chiedere «Si sentiva bene? Ero un po’ preoccupato per i fiati» con la stessa convivialità del vicino di casa che parla del tempo in attesa di arrivare al suo piano).

Nel suo ultimo lavoro, “Amazing game”, arrivato al culmine di una rinascita creativa che lo ha visto pubblicare quattro album in due lustri dopo un lungo silenzio, ha rinunciato alla parola per concentrarsi sulla musica, ma nei concerti, sempre affollati da una folla incantata, riesce sempre a incantare con il suo timbro inconfondibile, il suo tocco prezioso, il più povero degli strumenti, il kazoo che è diventato un tratto distintivo del suo stile, come a sdrammatizzare anche i momenti più struggenti.

«Bella soda»

Festeggiando questo compleanno ricordiamo le incursioni comasche, al Teatro Sociale ancora prima che la sala aprisse con regolarità agli artisti “pop”, a Villa Erba, ma c’è anche un gustoso aneddoto. Grande estimatore di Piero Chiara (gli è stato conferito anche il premio dedicato allo scrittore luinese) lo ha accostato al lariano Davide Van De Sfroos: «I suoi personaggi sono gli spalloni, i contrabbandieri. C’è della poesia lì dentro, poesia lombarda, bella soda». Bernasconi – anzi, il Bernasconi, per dirla alla Chiara – gli fece pervenire sentiti ringraziamenti e l’avvocato rispose, poche righe battute a macchina (e dall’autore di “Parole d’amore battute a macchina” suscita già un brivido) sulla carta intestata dello studio da avvocato, dando al buon Davide rispettosamente del lei.

Recentemente, in un’intervista concessa ad Alberto Bazzurro per “Musica jazz” di dicembre, tra le varie spigolature, ha risposto alla domanda «Quando firmavi in coppia con Pallavicini i testi erano tuoi?» con un «Ma certamente» che non lascia dubbi. Ecco, allora, che ripensando all’«oleandro e al baobab» di “Azzurro” si intravedeva già l’autore de «La vera musica, che sa far ridere e all’improvviso ti aiuta a piangere... La grande musica frequenta l’anima col buio inutile e non si sa perché».

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