Il delicato filo che unisce
malato e medico

Saggio Alessandra Papa affronta dal punto di vista filosofico il rapporto tra il paziente e chi è destinato a curarlo. La differenza tra prendersi cura e avere cura, la necessità dell’ascolto e le difficoltà legate a tempo e risorse

All’improvviso, irrompe la malattia. Transitoria o invalidante può portare significativi cambiamenti nella vita di chi ne è colpito. Oltre al sostegno di familiari e amici, nell’esistenza del paziente scende in campo una figura, quella del medico, che entrerà nella sua vita e avrà accesso diretto alla sua intimità e alle sue paure. Lo visiterà e proverà a frapporsi tra corpo e malattia come uno scudo, ma come approccerà il paziente in quanto “persona malata”? Quest’ultima riceverà solo terapia, efficacia e massimo rigore scientifico, o potrà permettersi di mostrarsi persa e vulnerabile, trovando accoglienza, ascolto e umanità?

Non esiste un approccio unico, standardizzato e la cura tocca l’uomo nei suoi aspetti più profondi e sensibili, tanto da essere, da sempre, oggetto di attenzione dei filosofi, come testimonia Alessandra Papa, docente di Filosofia morale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in “L’identità esposta – La cura come questione filosofica” (Vita e Pensiero).

Questione antica

«La cura è una questione filosofica antica che ha a che fare con il beneficere proprio e altrui. La filosofia socratica, per esempio, insegnava ad avere cura di sé stessi, perché solo chi era in grado di avere cura di sé era poi in grado di prendersi cura della città» spiega Papa. Se questa visione ne sottolinea la forte valenza politica, per Heidegger la cura è la radice stessa dell’esistenza tanto da teorizzare un’importante differenza. «Il filosofo tedesco distingue tra il prendersi cura, inteso come una sorta di fare meramente tecnico finalizzato a procurare all’altro solo ciò di cui ha bisogno, e l’aver cura, inteso come un agire più autentico, un vero e proprio impegno esistenziale, in cui non basta essere presenti, ma è necessario dedicare all’altro un tempo fatto di parole, di sguardi, di mani che toccano» sottolinea l’autrice.

Teoria e pratica

Ma oggi, questa seconda modalità trova riscontro nella pratica medica, in strutture dove tempo e risorse sono limitati? Qualcuno la esercita in un centro dove le patologie sono oncologiche e possono toccare le pazienti nella loro femminilità, accrescendone timori e vulnerabilità. «Durante la visita, l’aspetto cosiddetto tecnico e l’attenzione alla componente umana devono andare di pari passo e fondersi: il giusto ascolto al racconto e al sentire della paziente conferisce un valore aggiunto alla procedura chirurgica e a tutto il percorso terapeutico» spiega Luca Bocciolone, ginecologo oncologo presso l’Istituto Europeo Oncologico di Milano.

Pertanto, se è vero che in sala operatoria non si fa filosofia e si lavora con bisturi, metodo e scienza, l’esperienza clinica conferma che se la paziente viene seguita con attenzione e empatia poi affronta il processo di cura con maggiore forza e fiducia. «Inoltre, poiché questo tipo di patologia spesso impatta sulla femminilità della paziente, l’esigenza di un approccio chirurgico e umano rispettoso della sua ulteriore vulnerabilità diviene ancora più stringente» sottolinea lo specialista.

Dedizione, attenzione e sensibilità sono ancora più importanti quando i pazienti sono portatori di disabilità e quando richiedono particolari prestazioni che l’attività ospedaliera ordinaria fatica a erogare, tanto da spingere alcuni medici a offrire loro cure, in qualità di volontari, oltre l’orario canonico nella stessa struttura dove lavorano. «L’iniziativa Un sorriso per tutti nasce dalla consapevolezza che questi pazienti, oltre a necessitare di trattamenti, come, per esempio, quelli per le patologie del cavo orale da eseguire necessariamente in sedazione o narcosi, hanno bisogno di un tempo e di un approccio speciale, dove esigenze terapeutiche, neurologiche, psicologiche e psichiatriche devono trovare univoca risposta a tutela della loro particolare fragilità» spiega Andrea Di Francesco, responsabile della U.O.S. di Chirurgia Maxillo-Facciale Pediatrica presso l’Ospedale Sant’Anna di Como e coordinatore del servizio.

La missione medica

L’importanza di mettere la persona malata, soprattutto se disabile, al centro del suo bisogno di cura è più che mai aderente alla missione medica autenticamente vicina a tutte le necessità del paziente. Risposta a bisogni speciali, ascolto e rispetto per corpo e sensibilità della persona malata consentono di auspicare, per la Medicina del futuro, un “ritorno all’antico”, perché farmaci intelligenti, test genetici innovativi e tecniche chirurgiche di ultima generazione nulla potranno se il medico non saprà venirci incontro, sostenerci e prenderci letteralmente per mano.

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