Istruzione e memoria
L’eredità di Bauman

Il testo integrale della lectio, uscita a puntate su “L’Ordine” (l’ultima in edicola domenica 15 gennaio) che il grande pensatore, scomparso all’età di 91 anni, tenne il 3 ottobre 2015 alla Fondazione Cometa di Como

Cercherò di riflettere sulle radici della crisi contemporanea dell’educazione e dell’istruzione. Poi mi soffermerò sull’impatto e sugli effetti che le nuove tecnologie hanno sul nostro modo di pensare, di leggere, di lavorare, di definire il nostro intero intelletto. Ci sono alcuni aspetti che vanno considerati e che cospirano contro il contatto giusto tra l’educazione e le nostre attività. Cerchiamo di contestualizzare un po’ il nostro pensiero riportando alla memoria l’antica saggezza del popolo cinese. Torniamo ai tempi di Confucio. L’antica saggezza cinese ci insegna che, se si fa un piano per un anno, si potrà seminare il grano, se si fa un piano di dieci anni, si potrà piantare un albero invece del mais, ma se facciamo un piano per cento anni, si potranno educare le persone, istruire la gente. È meraviglioso questo pensiero e credo che sia in grado di contestualizzare il nostro modo di pensare il mondo dell’istruzione. L’educazione è gettare le fondamenta per riciclare il presente e portarlo nel futuro. Il guaio dell’istruzione è che ci dimentichiamo il passato e non siamo più in grado di pensare con una prospettiva a lungo termine. Poiché il pensiero a lungo termine non è più così favorito nella società contemporanea, siamo attanagliati da una nuova serie di tormenti, di preoccupazioni, di problemi che richiedono un’azione immediata. Quella in cui ci troviamo non è la prima crisi della storia dell’istruzione, ma credo tuttavia che abbia una portata diversa rispetto a quelle del passato. Il fatto, ad esempio, che non pensiamo più seriamente alle conseguenze a lungo termine nel nostro agire. Questo è diverso rispetto al passato e mi porta alla radice del problema. Partirò da Roberto Esposito, uno dei filosofi italiani più importanti della nostra epoca che ha suggerito i concetti della “Communitas” e della “Immunitas”. Siamo nel mezzo di una “Communitas”, parola latina che indica una comunità, qualcosa a cui noi apparteniamo, qualcosa di vero, che esiste oggettivamente. Appartenere a una comunità significa allo stesso tempo avere una sensazione di ordine molto positiva, sentimenti positivi, essere parte di qualcosa e, in caso di necessità, poter contare sui amici, fratelli, sorelle. D’altro canto però c’è il risentimento, perché comunità significa anche accettare molti vincoli sulle scelte individuali e private. Devo comunque rinunciare a parte dei miei desideri, a parte della mia libertà per poter sostenere il mio essere all’interno di una comunità. “Immunitas” è anch’essa una voce ambivalente, e da un lato ci libera, ci toglie molti vincoli e limitazioni imposte dalle comunità. Non devo più essere disciplinato come in passato, sono libero di scegliere, posso selezionare le opzioni che ritengo più desiderabili per me. Questo è il lato positivo della “Immunitas”. D’altra parte la nostra libertà arriva insieme ad un pacchetto che contiene anche l’insicurezza, oberata anche dalla responsabilità, perché diventiamo responsabili delle nostre scelte. Fare una scelta giusta rispetto a una sbagliata è una responsabilità. C’è la possibilità che alcuni trovino tutto questo un onere eccessivo. Più è libera la nostra vita, più è libero il nostro diritto di scegliere il nostro percorso, maggiori sono i rischi che questo implica. Quindi, come comprenderete, da molti punti di partenza gli effetti sono ambivalenti e non è facile conciliare queste contraddizioni culturali: l’una e l’altra hanno i loro pro e i loro contro. È questo quello che si può apprendere leggendo Esposito, ma ci sono molti altri pensatori che hanno esaminato molto strettamente lo stato dell’istruzione e dell’educazione contemporanea e hanno ritrovato quanto sia profondo il cambiamento che è avvenuto a partire dagli anni Settanta. Voi, oggi, avete accesso a tutte le persone che vivono sul globo, sul pianeta terra, avete accesso a tutto questo dal vostro cellulare, potete accedere a qualsiasi luogo del mondo e, in teoria, grazie ad internet avete accesso a tutta la conoscenza che esiste nel mondo. Vi sentite in grado di poter controllare tutto questo, perché questa “Communitas”, come direbbe Esposito, è stata sostituita dall’ ”Immunitas”. Ciò che sostituisce la comunità nell’era digitale è quel mondo, non è più comunità, ma una rete mondiale che create voi stessi. Non soltanto la create, ma ne detenete anche il controllo, siete voi che componete questa rete e avete la libertà di utilizzarla senza neanche troppa fatica. Potete trovare nuovi amici e, con la stessa facilità, siete in grado di eliminarli. Si tratta di qualcosa che non si può fare quando si cammina per strada in città o quando si trova un lavoro e si costruiscono nuovi rapporti con i colleghi. Lì il processo è difficile, pieno di angustie: è difficile stabilire il proprio ambiente, la propria comunità. D’altra parte, sul web si può entrare in relazione con altre persone senza impegno. Non dovete giurare che manterrete la lealtà fino a che morte non vi separi, il tutto dura finché non ci sarà un’ulteriore notifica, un ulteriore avviso. Anche il modo di apprendere si è modificato. Gli studenti degli istituti di formazione attuali utilizzano google: tutta la conoscenza che gli serve per superare gli esami è già nei server di google da qualche parte nel deserto degli USA. Quindi non c’è bisogno di appesantire la propria memoria con fatti e conoscenze. Ci sono indubbiamente dei vantaggi, ma ci sono anche prezzi da pagare per tutto questo: si ottiene qualcosa ma si perde qualcos’altro. Nulla ci arriva senza pagare un prezzo. Qualità come la pazienza si perdono, così come la capacità di pensare: il pensiero richiede una prospettiva di tempo davanti a noi che prevede un passo dopo l’altro. Ci sono ministri americani che lamentano, ad esempio, il fatto che non si riesca più a leggere “Guerra e pace” di Tolstoj: la lettura di questo libro faceva parte del patrimonio culturale di una persona che voleva essere considerata intelligente. Oggi leggere novecento pagine viene considerata un’impresa impossibile.

Edward Osborne Wilson, biologo dei nostri tempi, afferma che siamo cresciuti in termini di informazioni, ma abbiamo sete di saggezza. Le informazioni non si tramutano in saggezza, e questo è il punto principale che caratterizza lo stato contemporaneo della formazione e dell’istruzione. Oggigiorno è molto più difficile trarre saggezza dalle informazioni. Se si chiede a uno studente di leggere un articolo intero di giornale, vengono sollevate obiezioni: l’intero articolo? Ma quale paragrafo? Da che punto a che punto lo devo leggere? Concentrarsi sull’articolo per acquisirne la totalità del messaggio, decifrabile semplicemente leggendolo tutto, è semplicemente oltre la capacità di molte persone, persone che sono cresciute nell’età moderna e sono quindi abituate, fin da quattro o cinque anni, ad usare il tablet o l’iPhone. Questo tipo di conoscenza staccata, fluida, è una conoscenza che svanisce velocemente.

Un’altra vittima della tecnologia informatica è la capacità di concentrarsi su un aspetto, su un tema per un lungo periodo di tempo: questa capacità ci permette di passare attraverso diverse soluzioni sperimentali, magari con delle sconfitte, in molti casi, ma con delle conseguenze che ci permettono di andare avanti e di costruire, mattone per mattone, passo dopo passo, l’intero edificio del progetto che ci si è posti. Troppo spesso, miei cari amici, ci capita di non essere più capaci di risolvere i problemi, mentre siamo molto più occupati ad annoiarci, ad acquisire una saggezza che ci annoia. Noi fluttuiamo tra le molteplici opportunità che ci vengono offerte dalle centinaia di canali televisivi, o dai vari miliardi di diversi siti internet e questo secondo me è una trasformazione molto marcante del nostro modo di pensare. Stiamo perdendo diverse capacità come la concentrazione, la pazienza, la capacità di fissare la propria attenzione, la capacità di seguire il processo delle azioni fino in fondo, indipendentemente dal tempo che ci voglia.

Invece la cultura ispirata alla facilità della tecnologia informatica, facilità che rappresenta l’attrattiva principale di questa conoscenza informatica a che cosa porta, a quali risultati? Porta a una incapacità di esercitare un vero controllo sul corso della propria vita. Psicologi, psichiatri, osservatori condividono questa conclusione: tutti concordano nel dire che c’è un illusorio controllo della nostra vita nella tecnologia che di fatto coincide con una vulnerabilità del nostro itinerario. Se una cosa richiede uno sforzo maggiore, cerchiamo una scorciatoia, un modo più facile e meno oneroso. Negli studi di molte persone che hanno indagato gli aspetti psicologici della nuova era basta sulla tecnologia emergono gli effetti del nuovo modo di pensare, di leggere, di memorizzare ai giorni nostri.

Oggi ci si vuole liberare dalla necessità di memorizzare ogni singolo fatto. Questo è vissuto come una liberazione, ma ci sono anche conseguenze negative. John Steinbeck diceva che le fonti d’informazione sono un po’ come i topi: se ne prendono un paio, si lasciano assieme e presto svilupperanno abitudini molto fertili. L’esternalizzazione della memoria ha invece delle conseguenze: ci rende meno capaci di essere creativi. Ci sono meno punti di collegamento nel nostro cervello in grado di elaborare una visione in un momento di illuminazione e vedere una nuova domanda o un nuovo quesito, e di cercare una risposta. Quello che ho detto in breve e in modo molto semplificato sul ruolo della information technology crea nuove personalità, nuovi modi di pensare nel mondo di oggi, sia che ne siamo consapevoli o meno, ma questo è il modo di pensare che abbiamo acquisito. Sto aspettando un giudizio finale. Ci sono sicuramente dei miglioramenti ma ci sono anche dei danni apportati dalla rivoluzione tecnologica dei nostri tempi. Ma qual è l’equilibrio, qual è il bilancio? Che cosa prevale? La prevalenza di un dato significa la trascuratezza dell’altro e questo è meno promettente della vittoria di uno dei due. Ci deve essere un nuovo equilibrio, un nuovo rapporto stabilito tra questi due poli, ma è ancora troppo presto per esserne sicuri e per essere consapevoli di conoscere quale sia l’esito perfetto. Il mondo si è individualizzato e i legami umani sono estremamente manipolati. Nello stesso mondo contemporaneo c’è una crescente nostalgia per il passato. Non dimentichiamo le eredità che i nostri padri ci hanno lasciato.

Ora vorrei soffermarmi sulle minacce all’istruzione. Se non ci saranno interventi, azioni per contrastare queste minacce, saranno tempi duri per l’istruzione. Citerò soltanto tre di queste minacce: la prima è una codificazione della conoscenza. La conoscenza non è una proprietà privata, non è una merce. La conoscenza è parta della nostra natura, è data solo se è comunicabile, se è condivisibile, se si può condividere con gli altri, è una proprietà comune di cui ogni generazione ha costruito la realtà e di cui ogni generazione ha dato le fondamenta. Oggi siamo in un eccesso di mercificazione della conoscenza, la stiamo rendendo un prodotto. Sempre più paesi in tutto il mondo hanno introdotto oneri semplicemente per avere il privilegio di entrare in college o università molto famosi o di prestigio. Secondo i miei calcoli, uno studente statunitense se vuole studiare in una università o in un college prestigioso deve avere in tasca almeno 50 000 dollari l’anno: questo è il costo, ad esempio, per frequentare un anno all’università di Berkeley che, fino a quarant’anni fa, era gratuita per tutti i residenti della California. Questo mi porta a considerare un’altra minaccia dietro l’angolo: il sistema di istruzione viene lentamente ma costantemente trasformato in un meccanismo di produzione di privilegi e di deprivazione. Già quello che vi ho detto poco fa, 50 000 dollari per sopravvivere all’università di Berkeley, dimostra che soltanto poche persone si possono permettere di mandare i propri figli ad acquisire un’educazione universitaria di alto livello. Il 74% degli studenti attuali delle università statunitensi provengono dalla classe più alta della società americana dal punto di vista del reddito, mentre solo il 3% proviene da quella più bassa. Questo significa che si producono dei deficit e questo è molto pericoloso. Sarebbe necessario invece di diffondere la conoscenza rendendola disponibile a tutti, distribuendo la possibilità di acquisire le abilità e le competenze che sono necessarie oggi, e fare una cosa come quella che sta facendo questa fondazione (il riferimento di Bauman è a Cometa, dove era ospite, ndr) per contrastare questa corrente prevalente negli istituti formativi.

L’ultimo pericolo che sottende il problema dell’istruzione è il proliferare di corsi e programmi nelle varie università al solo scopo di business. Il business viene presentato come la fonte della saggezza, ma cosa vi dicevo all’inizio della mia lectio, ricordiamoci della vecchia saggezza cinese. L’antica saggezza cinese ci insegna che, se si fa un piano per un anno, si potrà seminare il grano, se si fa un piano di dieci anni, si potrà piantare un albero invece del mais, ma se facciamo un piano per cento anni, si potranno educare le persone, istruire la gente. Maggior incertezza non può fungere da medicina per combattere la vulnerabilità della condizione umana già esistente, quindi è una strada che non ci porta da nessuna parte. Vorrei concludere con queste parole: qualsiasi scelta si faccia, ricordate che fare istruzione significa fare un investimento per i prossimi cento anni perlomeno.

(Testo raccolto di Manuela Moretti)

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