L’addio al padre
«Sono tornato
nella città crudele»

Il racconto: una confessione e un congedo,
Gian Paolo Serino mette a nudo il dolore più profondo

È dedicato al padre Vittorio, morto a Como il 15 giugno 1994 dopo una breve malattia, questo racconto che Gian Paolo Serino offre ai lettori. Una lettera, quasi un grido rivolto a questa figura dolorosamente assente. In origine intitolato “Echi”, il racconto di Serino vuole essere il primo di una serie dedicato al delicato e profondo tema del rapporto tra padri e figli

Sono tornato oggi in questa città ora crudele. La città dove siamo cresciuti insieme, padre. Davanti a me le strade deserte; e il tempo intristito, il tempo fermo e molto più triste di quando i tuoi occhi, chiari di verde, accarezzavano questa luce ora crudele, di quando i tuoi occhi parlavano in silenzio e il mondo non voleva essere altro che esistere. E, intanto, tutto come se continuasse. La vita crudele perché vita. Come all’ospedale. Dicevo non dimenticherò mai, e oggi ricordo. Volti diventati sconosciuti, sfigurati nella mia certezza di perderti, nella mia disperazione disperazione. Come all’ospedale. Non credo tu possa aver dimenticato.

Come me, aspettavano

Mentre aspettavo mia madre e mia sorella, le persone mi passavano accanto come se il dolore che mi riempiva non fosse immenso e non avvolgesse anche loro. Le donne parlavano, gli uomini fumavano. Come me, aspettavano: non la morte, davanti alla quale, noi chiudiamo sempre gli occhi nella speranza che, se non la vedremo, lei non ci vedrà. In una macchina troppo veloce, mia madre piegata dalla perdita di quel che possedeva, e mia sorella. Fuori, gli uomini e le donne parlavano e fumavano. Nella stanza, in un letto qualsiasi ma non il tuo, il tuo corpo. Forse distante, preso in uno sguardo lontano, respiravi. L’aria con cui lottavi, lottavi sempre, gridava il suo percorso roco. Dal naso entrava il tubo che ti teneva in vita. Ai piedi del letto, mia madre muta, vedova di tutto. Poi, io e mia sorella. Tende di plastica ci separavano: quasi che dei para-venti potessero proteggerci dalla tempesta.

Ti ho mentito

Ti ho appoggiato le mani sulle spalle. Tutta la forza ti si era spenta nelle braccia, nella pelle ancora pelle viva. E ti ho mentito. Ti ho detto quello in cui non credevo. Al tuo sguardo ho detto che saremmo stati di nuovo. E ti ho mentito. Ti ho detto torneremo a casa, padre, andiamo, guido io la macchina, padre. Solo finché non potrai, padre; ora sei debole ma poi, padre, ma poi, padre. Ti ho mentito. E tu, sincero, mi dicevi soltanto uno sguardo supplichevole, tu che non hai mai supplicato nessuno, uno sguardo da non dimenticare mai più.

Finito l’orario di visita, ci fecero uscire. Quando uscimmo, stretti come naufraghi, la luce ci faceva ombra.

E questa sera, e questa città ora crudele. Nella nostra strada, la nostra casa. Il cancello davanti a me, chiuso, sfidante. Dicevo non dimenticherò mai più, e questa sera ho ricordato. Con i tuoi movimenti, ho preso dalla tasca le chiavi e, come facevi tu, ho usato ogni cura per scegliere la chiave giusta, esaminandone ciascuna, inorgogliendomi di ciascuna. E, nella serratura, il trionfo. Le cose ad accadere nel modo giusto. I cardini hanno levato un grido come un sospiro o un rantolo.

La nostra casa mi parla. Anche ora, che non sei più. Fatti valere, ragazzo.

Mi chiamavi per nome, mi chiamavi figlio, e sentire il mio nome dalla tua voce, e udire figlio nel filo caldo della tua voce era strano. Se avessi potuto, ti avrei protetto. La speranza, padre. Ogni settimana, per cinque mattine di seguito ti vedevamo andare a curarti. Io, tuo figlio, ti vedevo andare a curarti e mi faceva male la vita, mi facevano male le macchine che si accendevano e la vita che si spegneva. Dentro di te. La vita che ti consumava, anche se tu l’amavi, la vita che ti sconfiggeva, anche se tu l’amavi. La terapia. Ne parlavi, dicevi la parola, dicevi vado a curarmi, e noi che sapevamo, ci riempivamo di un’amarezza indelebile, definitivamente fissata sulla nostra pelle interiore.

Sempre puntuale

Come sempre, eri puntuale.

Dicevi vado a curarmi, mi mettevi fretta, mettevi fretta a mia madre, come se qualcosa ti potesse guarire, come se qualcosa ti potesse restituire i giorni.

All’ospedale, la sala d’attesa stagnante di tempo inutile, e mia madre seduta, sola, lontana dalla nostra casa e dai nostri luoghi, come una bambina timida, vergognosa.

Tu che ti allontanavi, come il ragazzo custode di vita che hai sempre voluto che io fossi, ti allontanavi, vestito con la camicia più nuova e i pantaloni più nuovi e il maglione che ti avevo regalato convinto che potesse riscaldare il freddo di nuovo inverno. Ti allontanavi, e la sensazione orribile che non saresti mai più tornato.

Sono entrato in casa. Le finestre chiuse incorniciavano ombre nel buio. Dal silenzio, dalla penombra, spettri, memorie?

No, figure che si rifiutavano di essere memorie, o forse un miscuglio di carne e luce o ombra. E ti ho visto e ti ho pensato ti ho ricordato, a tavola, seduto al tuo posto. Seduto ancora al tuo posto, e io, mia madre e mia sorella, seduti anche noi, attorno a te. Uguali a come eravamo. Stavamo lì da molto tempo, dimenticati, abbandonati dal giorno in cui il trascorrere delle cose si era fermato sulla nostra felicità semplice sincera. Come una gioia, come se avessimo cenato o aspettassimo la cena, stavamo lì. Tu eri tornato dal lavoro, ed era stata una bella giornata, ed eri contento per questo. Mia sorella era fidanzata. Io frequentavo l’università, e non pensavo ai voti, e avevo giocato a pallone, e avevo vinto, e se avessi perso, era lo stesso. Mia madre, vera madre di tutti noi, ci guardava e sorrideva così e sorrideva per questo. Felici. Lontani dalla pioggia di un’estate nera, lontani dal tuo corpo gelido. Tu eri lì in una camera ardente di gente che mi abbracciava, piena di gente che mi diceva poverino e le mie condoglianze e mi dispiace molto, piena di gente che mi cercava e voleva afferrarmi e dirmi le mie condoglianze e mi dispiace molto.

Il silenzio insepolto

Padre. Perderti. Ho vissuto il silenzio insepolto delle tue labbra morte. E le ombre di noi due, come se solo aspettassero questi pensieri per perdersi, si sono confuse nel nero. La polvere delle ore senza nessuno. E ho pensato non potrebbero gli uomini morire come muoiono i giorni? Così, con uccelli a cantare senza sussulti e il vento calmo che accarezza le foglie e il silenzio che cresce naturale, il silenzio atteso, finalmente giusto, finalmente degno.

Padre. Sei rimasto in tutto. Sovrapposti alla pena indifferente del mondo che finge di continuare, i tuoi movimenti, l’eclisse dei tuoi gesti.

Padre. Non sei mai invecchiato, e io volevo vederti vecchio.

Ora mi mancano le tue parole. E resto qui. Sono qui. Sento l’eco della tua voce. La tua voce che tace per sempre. E, come se ti addormentassi, ti vedo chiudere gli occhi. Per sempre. Per mai più. Padre. Tutto quello che ti è sopravvissuto mi aggredisce.

Innocente indifeso addormentato sereno, tu. Le idee coperte da legno e vernice e un crocefisso. La bara chiusa. La pioggia, la notte.

Mia madre e mia sorella piangevano, dicevano parole e ancora parole. Solo pioggia e notte, padre.

Dietro di noi, il passato che cresceva di minuto in minuto.

E tu, ormai senza passato, perduto in lui e a partire da lui eri dolore e parole, pioggia e notte. Tu impassibilmente morto. Padre. Solo pioggia. Solo notte.

Cresce il mattino

Non c’è giustizia nell’insistenza di questo mattino, non c’è giustizia nell’artificio di questa estate. L’aria si finge respirabile. E questo mondo, ora vuoto, vuole essere ancora il mondo. E, in realtà, tutto si mantiene sospeso. Tutto vuole e tenta di essere uguale. Tutti sembrano crederci. Senza di te, le persone vanno ancora dove andavano, seguono ancora le stesse linee invisibili. Ma io so, padre. Si sono perse le leggi con te. Si è perso l’ordine che portavi. Padre. Il cielo trascina nuvole lente. Cresce il mattino, cresce la stanchezza. E la luce insiste. I minuti passano. Nell’orologio ci sono gli stessi istanti che abbiamo vissuto mille volte insieme e che ora nascono senza di noi e ci oltrepassano. C’è il sole che abbiamo visto mille volte e che ora non ti scalda, che ora non mi scalda. Padre. Passo attraverso tutto e tutto mi lascia e passa attraverso di me. Cado. Avanzo. Indietreggio.

Ho passato la notte da solo. Davanti ad un camino che non esiste più. Padre, che ti sforzavi di scendere dal letto, che sopportavi il dolore per stare qualche minuto con noi. E stavamo lì quasi dimenticandoci della tua malattia. Padre, innocente. Mai ti ho visto così vulnerabile, sguardo di bambino perduto a chiedere aiuto. Padre, mio piccolo figlio.

Noi che ti stavamo vicino, e intorno i tuoi gemiti lontani nella verità che ti ha sotterrato, ti stavamo intorno, con le nostre lacrime inutili .

Dove sei?

Ti ho cercato al di là della memoria, negli angoli che solo noi conosciamo, e non ti ho visto. Ho visto appena, nel buio degli angoli poco illuminati, il buio della tua mancanza, il dolore senza fine che solo si può sentire. Ti ho cercato negli angoli della notte.

Sono entrato nella tua stanza, nella stanza di mia madre. E il letto fatto. La coperta verde del letto su cui saltavo la domenica e gridavo contento perché il giorno cominciava. Lo spazio vuoto della culla che non ho voluto abbandonare. Il letto dove hai dormito tante ore sotto l’incoscienza dei farmaci che ti davano per vivere o per dormire. E se ti svegliavi in un grido imbavagliato dicevi tu non senti? E noi correvamo fino alla luce della lampada, fino al tuo viso tatuato di sofferenza.

Mancava la forza

Ti guardavamo senza poter parlare. Mancava in noi quello che abbiamo imparato da te, la forza.

E la stanza restava con la malattia e non la chiudeva, la diffondeva per tutta la casa e in tutto quello che si poteva toccare. Dalla stanza, l’odore scuro putrido della malattia. L’odore che ancora oggi ogni tanto sento. Quando mi guardo allo specchio e mi vedo uguale a te.

Mi è difficile descrivere il tuo viso. I tuoi capelli ricci neri o deboli corti pochi all’ospedale; le tue sopracciglia, le tue dita che le pettinavano; l’esile tempo delle tue labbra che sorridevano o ridevano proprio o soffrivano; la pelle delle tue guance, la barba che pizzicava nei baci, il bacio che mi desti la mattina che sei partito per la prima operazione e mi hai abbracciato e ancora ricordo il tuo profumo e ancora mi ricordo le tue braccia e tu che te ne andavi e io che restavo solo; la pelle delle tue guance, il bacio che ho dato sul tuo viso morto, sulla tua pelle più liscia di qualsiasi pelle, più gelida, la pelle e il bacio che non dimentico ogni volta che bacio.

Apro un cassetto

Ogni tanto apro un cassetto e ritrovo il tuo orologio, che ancora ti aspetta, che ancora segna i secondi: uno un altro un altro un altro. Secondi che si sovrappongono ancora, ancora dopo di te, ancora secondi e tempo, come se fosse interminabile il tempo, come se non potesse essere reciso in qualsiasi istante, in qualsiasi secondo, bruscamente reciso, per non unirsi mai più, per non tornare mai più a unirsi, non tornare mai più a unirci.

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