«Sul palco tutti uguali
Ma quel cromosoma
ci insegna la felicità»

Domenica si apre la stagione teatrale al CineTeatro Artesfera di Valmadrera con “Up&Down”, uno spettacolo che è qualche anno che gira per l’Italia, con ottimi riscontri di pubblico e critica.

Sul palco ci saranno il presentatore e comico televisivo Paolo Ruffini e gli attori della compagnia “Mayor Von Frinzius” di Livorno, composta da cento membri, di cui metà con disabilità. Dallo spettacolo è nato anche un libro, scritto dallo stesso Ruffini, intitolato “La sindrome di Up”.

L’appuntamento di domenica è alle 16.30. Biglietti a partire da 28 euro, acquistabili sul sito www.artesfera.it.

Ruffini, ci racconta qualcosa su “Up&Down?”

È uno spettacolo che facciamo da diversi anni, mutandolo leggermente a seconda del cast, e tratta del tema della felicità. Durante la rappresentazione io sono in scena e cerco di mostrare le mie abilità; nel frattempo sono presenti anche attori con la sindrome di Down che vogliono dimostrare di essere meglio di me.

Ci riescono?

Per lo più sì, direi.

Qual è il segreto di questo spettacolo?

La capacità di riconciliare il pubblico con una parte sociale e non social, senza la “e”. Riconcilia il pubblico anche con un’idea di felicità pura, perché spesso le persone con la sindrome di Down sono in “Up”, mentre in down ci sono quelle comuni, che si crogiolano tutto il giorno nel grigiore delle loro vite.

Come è nato “Up&Down”?

La genesi è piuttosto lunga. A Livorno esiste una compagnia chiamata “Mayor Von Frinzius”, diretta da Lamberto Giannini. Loro già trent’anni fa praticavano l’inclusione, nei loro laboratori di teatro non veniva escluso nessuno. Una decina di anni fa ho iniziato a chiedermi perché il teatro per disabili dovesse essere per forza elitario, perché non potesse girare nei circuiti commerciali.

Direi che ha raggiunto il suo obiettivo.

Sì. Il nostro spettacolo non è stato confinato in terza serata, l’abbiamo portato in prima serata su Italia 1, ci siamo esibiti nei migliori palcoscenici delle grandi città. Ogni tanto mi fanno i complimenti perché dicono che “faccio beneficenza”, ma sbagliano, loro sono pagati come qualsiasi attore. La verità è che è uno spettacolo alternativo e piuttosto scorretto, ma soprattutto libero.

Cosa le ha insegnato lavorare con colleghi con la sindrome di Down?

Insegnato non saprei, sicuramente non mi sono mai annoiato con loro. Mi diverto di più che con le persone coi cromosomi normali, che spesso mi risultano di una noia mortale. La verità è che questa è un’operazione molto egoistica perché loro sono ancora in grado di dare valore all’abbraccio e non c’è invidia. Non penso che siano “speciali”, definizione che mi sembra un po’ come il razzismo al contrario. Anche tra i ragazzi con sindrome di Down ci sono persone cattive, come quelle gentili, come per tutti noi.

Non ha notato nulla di diverso?

L’unica cosa che ho notato è che hanno una grande confidenza alla felicità, sono molto più portati al sorriso, mentre noi ci concentriamo su cose tipo follower, Instagram e quelle cose lì, stronzate a cui loro non pensano minimamente. A livello cognitivo l’intelligenza è sopravvalutata, a volte è meglio avere un ritardo cognitivo e più sensibilità, che il contrario.

Ci racconta qualche episodio curioso capitato in tournée?

Ce ne sono stati tanti. Uno che ricordo in particolare avvenne dopo uno spettacolo. Noi solitamente andavamo a cena tardi, finimmo in un ristorante con un cameriere molto burbero e l’unica cosa che ci diedero fu una pasta all’olio, senza manco un po’ di sugo. Io, infastidito, stavo già per protestare ma Andrea disse “È la pasta all’olio più buona che abbia mai mangiato”. Mi ha spiazzato: è stato capace di trovare il lato positivo anche da una semplice pasta.

Cosa porteranno a casa gli spettatori a fine spettacolo?

Ognuno lo affronterà in maniera diversa, anche perché cambia continuamente, grazie all’interazione col pubblico. Spero che ci si possa rendere conto della semplicità della felicità, una grande occasione per tutti.

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