Della Fiori: «Il Charly come un fratello. Io? Un eterno Peter Pan»

Intervista con un’icona della Pallacanestro Cantù: Uno sportivo non invecchia mai dentro, ma solo fuori. E con i compagni di allora ci si trova ancora per una pizzata»

Undici di stagioni di fila con indosso la canotta della Pallacanestro Cantù. Questo è assodato. Ciò che invece lascia margine alla discrezionalità è il numero dei trofei sollevati. «Nove, non c’è dubbio - fa presente lui, ovvero Fabrizio “Ciccio” Della Fiori - perché pur se ragazzino componevo la rosa del primo scudetto nel 1968. Vinto non da protagonista? Vero. Allora facciamo otto e mezzo...»

C’è stato a Cantù un giocatore più forte di lei nel suo ruolo?

Se parliamo di italiani, non credo. Ma non lo dico io, piuttosto l’avete scritto voi de “La Provincia” quando ai tempi del Covid avevate stilato le classifiche ruolo per ruolo. Diciamo che sono d’accordo... Se invece allarghiamo l’orizzonte agli stranieri, allora sicuramente Thurl Bailey. Ma lui in A2, però, ah ah...

Il piatto forte della casa?

Il “Della Fiori move” così come ribattezzato da Recalcati durante gli allenamenti della Nazionale. Finta a destra, finta a sinistra e conclusione dalla lunetta. Ne sbagliavo pochi di tiri così. Poi, coach Taurisano inserì un gioco in cui io - d’accordo con Lienhard - fingevo di avvicinarmi a canestro mentre in realtà uscivo per concludere dall’angolo. La mano, del resto, era buona.

Cosa, invece, lo era meno?

Mai stato veloce né reattivo, perché il fisico era quello che era. Commettevo spesso infrazione di passi, anche se in verità me ne fischiavano poche.

Ebbe a dire che Aldo Allievi è stato il secondo papà e Carlo Recalcati un fratello maggiore.

Lo confermo. Il sciur Aldo mi ha “adottato” che avevo 16 anni e mi ha sempre trattato bene. Devo tanto a lui e alla sua famiglia. Quanto al Charly, mi ha preso subito sotto la sua ala protettiva. Stavo bene con tutti, ma con lui di più. È il fratello che non ho mai avuto.

Il coach al quale è rimasto più legato?

Taurisano, perché a lui devo tutto, cestisticamente parlando. Ma non scordo Stankovic che in allenamento mi faceva marcare Burgess per quella che è stata la mia fortuna.

In che senso?

Su Burgess non voleva difendere nessuno perché ti massacrava di botte. Merlati una volta lasciò piccato l’allenamento e Stankovic indicò De Simone per la marcatura. “Non sono mica scemo” gli rispose. E così da lì in avanti toccò a me, che ero poco più di un ragazzino. Uscivo “gonfio” dal campo, ma ai quei tempi i genitori non si rivolgevano ancora al telefono azzurro... Burgess, tra le altre cose, mi ha insegnato a come muovere i gomiti dopo aver catturato il rimbalzo.

L’avversario con il quale ha conservato ottimi rapporti?

Dino Meneghin. Ci siamo menati tanto sul rettangolo di gioco e io ho quasi sempre perso tutti i round. Al massimo, qualcuno l’ho pareggiato. Ma siamo sempre andati d’accordo e abbiamo mantenuto una sincera amicizia.

Ci racconta un aneddoto legato ai vostri “match”?

Ero reduce dall’aver “aperto” due volte il mento nel giro di un mese e mezzo. Dapprima una sutura di quattro punti e poi di tre. Andammo a giocare a Varese e lui quando mi vide mi chiese cosa fosse successo. Una pacca sulla spalla, non disse nulla, ma in campo quella volta non provò neppure a sfiorarmi. Non l’ho scordato.

Con molti dei compagni di quegli anni ancora adesso condividete il rito della “pizzata” uscendo spesso a cena insieme. Chiaro indice che la vostra amicizia è davvero qualcosa di profondo.

Del resto se con qualcuno giochi otto anni, con altri sette e poi magari ci vai anche in Nazionale insieme è ovvio che un legame rimanga. Sì, ci si trova e stiamo ancora bene assieme. Sparando le stesse c...ate di una volta.

Lei, peraltro, è uno di compagnia.

Uno sportivo non invecchia mai dentro, ma solo fuori. E per quanto mi riguarda mi ritengo un eterno Peter Pan perché lo spirito è immutato. Devi vivere, altrimenti muori dentro. E lo dice uno che ha subito 14 interventi ossei, 5 cardioversioni, una serie di svenimenti e la rottura di alcune costole. Eppure non mi sono mai arreso al divano, preferendo sempre mantenermi attivo. Vivo, appunto.

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