Dopo 47 anni, la diossina di Seveso nei ricordi di una veterinaria comasca: «Una moria di animali incredibile»

Anniversario Bianca Zei, veterinaria residente a Como, nel 1980 da neolaureata fu assunta presso l’ufficio speciale istituito da Regione Lombardia a Seveso per la gestione dell’emergenza ambientale: «Sono rimasta lì quasi due anni»

«Bastava seguire la scia degli animai morti. Era una moria in particolare per quelli selvatici: gatti, piccioni e altri piccoli animali, soprattutto quelli che stavano più a contatto con il terreno... gli americani suggerirono questo metodo per tracciare gli effetti della nube tossica ed effettivamente funzionò». Le parole sono di Bianca Zei, veterinaria comasca oggi in pensione, negli anni Ottanta invece aspirante veterinaria neo laureata presso l’Istituto di Anatomia patologica e patologia aviare a Milano.

Erano passati quattro anni dal 10 luglio 1976, il giorno in cui dall’ICMESA (Industrie Chimiche Meda Società Azionaria), una fabbrica situata a Meda, ai confini della provincia di Como, si alzò una nube tossica contenente TCDD, un pericolosissimo tipo di diossina, a seguito di un incidente industriale. La nube fu sospinta dal vento in particolare sopra il territorio di Seveso, quello che riscontrò il maggior numero di conseguenze negative generate dalla sostanza tossica.

L’ufficio speciale e l’esperimento dei conigli

«Nel 1980 ero neo laureata - ricorda la dottoressa Zei - ma non ero riuscita a realizzare il mio sogno, che era quello di proseguire con la ricerca presso l’Istituto di Anatomia patologica e patologia aviare. Quindi, avendo scoperto che ero molto brava a disegnare, aprii la partita Iva e mi diedi all’attività di stilista. Però il mio nome era inserito in una lista di neo laureati pronti all’assunzione e fui chiamata all’ufficio speciale che era stato istituito a Seveso dalla Regione Lombardia».

«Da un punto di vista scientifico - prosegue Zei - molte analisi erano già state fatte nei quattro anni prima che io fossi presa all’ufficio speciale, sia per verificare la tossicità del terreno sia per gli effetti sulla salute delle persone e degli animali. La mia impressione però, ad anni di distanza, guardandomi indietro, è che prevalse in troppi casi l’interesse economico sull’amore per la verità, quella scientifica si intende».

Le conseguenze della diossina su persone, fauna e flora

«Io ero incaricata di svolgere nel concreto un esperimento che prevedeva l’alimentazione di alcuni conigli tramite pellet generato da campi di patate e barbabietole nella cosiddetta “zona rispetto”, o zona R, che sarebbe dovuta essere la meno inquinata tra quelle in cui Seveso era stata suddivisa a seguito del disastro». I conigli così nutriti venivano poi esaminati, a partire dal fegato, presso l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, per accertarsi che i terreni della “zona rispetto” non fossero più contaminati da quella che, ormai, era per tutti nota come la “diossina di Seveso”, anche fuori dall’Italia.

«In prima battuta l’esperimento fallì, poi fu riprodotto e ne emerse, grazie a un’analisi dei dati combinata con il laboratorio di analisi dell’azienda svizzera Givaudan, proprietaria anche di Icmesa, che il fegato dei conigli era negativo all’intossicazione da diossina e la zona R fu riaperta».

La diossina emanata dalla nube che si innalzò sopra l’ICMESA inizialmente si accumulò nel fegato delle persone, per poi trasudare attraverso la cute, come ricorda la dottoressa Zei: il primo grave segnale delle conseguenze che l’incidente industriale ebbe sulla popolazione infatti fu la cloracne che colpì alcuni bambini. Si trattava di un’eruzione cutanea, che normalmente si manifesta con evidenti eritemi su braccia e gambe, tali da lasciare cicatrici sulla pelle; a esserne colpiti furono in particolare 42 bambini residenti nella zona A, la più inquinata.

I ricordi di quegli anni

La dottoressa Zei ricorda l’impatto che quell’evento ebbe sulla popolazione locale: «Un anziano signore di Seveso mi aveva raccontato che all’ICMESA negli anni avevano lavorato numerosi operai provenienti dal Sud e che l’albergo dove erano ospitati si era poi rifiutato di farli restare quando il personale si era accorto che questi uomini, una volta coricatisi dopo la doccia, rilasciavano dalla cute qualche tipo di sostanza tale da far “sbriciolare” le lenzuola dei letti». Non solo, Zei ricorda anche di chi raccontava di essere stato cacciato in quegli anni dalle località marittime in cui si trovava in vacanza perché le persone temevano il contagio da parte dei cittadini dell’area colpita dalla nube.

«E poi gli animali appunto: a morire, nei primissimi momenti dopo l’incidente, furono soprattutto quelli piccoli e più spesso a contatto col terreno. Ma in generale ne morirono molti... fu una prima esperienza professionale complessa. Io cercai in ogni modo di essere precisa, scientifica, scrissi anche una relazione finale sull’esperimento dei conigli. La zona R quindi venne riaperta, ma le persone non avevano dimenticato». Era l’ultima delle tre zone in cui il Comune era stato suddiviso in base al livello di contaminazione della terra, quella stessa contaminazione che la dottoressa Zei fu chiamata a verificare tramite l’esperimento dei conigli. Oltre alla moria di animali, la dottoressa ricorda anche gli effetti deleteri della nube tossica sulla flora locale: le foglie degli alberi si accartocciarono e i danni alle colture furono drammatici. Il terreno contaminato venne prelevato e posto in due vasche di contenimento, sepolte sotto la nuova terra e i nuovi alberi che oggi costituiscono il verde parco di Seveso noto come Bosco delle Querce, un’area protetta che sorge sul luogo del disastro.

Il disastro di Seveso 47 anni dopo

Sono passati quasi cinquant’anni da quell’incidente che fu categorizzato come uno dei più gravi disastri ambientali mai avvenuti in Italia, tale da spingere l’Unione Europea a costruire una politica comune per la prevenzione e la gestione dei gravi incidenti industriali. Infatti, nel 1982 fu approvata una direttiva chiamata “direttiva Seveso”, mirata a imporre agli stati membri dell’UE di identificare gli stabilimenti a rischio e organizzare piani di intervento emergenziali.

«Un’ultima cosa, ci tengo a citarla perché accadde in quegli anni e c’entra con l’ICMESA... si tratta della morte di Paolo Paoletti, ingegnere tecnico e dirigente della ditta di Meda al centro del disastro. Fu ucciso dalle Brigate Rosse: ci tengo a ricordarlo perché in quei due anni all’ufficio speciale ebbi tempo di conoscerlo ed era una persona squisita. Non fu un periodo facile, il dramma di Seveso avvenne a ridosso degli anni di piombo e io lo ricordo così, come la mia prima, complicata, esperienza professionale. Un’esperienza che però ci avrebbe dovuto insegnare a stare molto attenti alle reazioni chimiche e all’impatto che hanno su flora e fauna, per scongiurare e prevenire altri disastri ambientali di questo tipo. Non so quanto effettivamente abbiamo imparato dal disastro di Seveso».

© RIPRODUZIONE RISERVATA