«Per fare il parà nascosi la miopia. Il generale Vannacci? L’ho conosciuto»

I personaggi e la storia di Como L’intervista a Paolo Mascetti ex vicesindaco e assessore di Como, nonché primario emerito del Sant’Anna

Sorpreso, Paolo Mascetti: «Come “chi è la Natalina”? Era una levatrice, un’ostetrica. In città la conoscevano tutti. Un’istituzione. Ha fatto partorire migliaia di mamme comasche. Tra l’altro credo che fosse a sua volta una trovatella… Anch’io sono nato con lei, in via Paoli, all’ex maternità, oggi liceo scientifico. Io il 14 aprile, il mio amico Vittorio Nessi il 13».

Quasi gemelli.

Quasi. Ci incontriamo tutti gli anni, fin dai tempi del liceo Volta, per festeggiare con un aperitivo. Un tempo si andava all’Argentino per un “Nava” dal Romano. Oggi si va dove capita. Un po’ qui, un po’ là.

Comaschissimo, Paolo Mascetti. Studi liceali, poi l’università.

A Pavia, collegio Ghislieri, uno dei due collegi storici, con il Borromeo, fondato da san Pio V, il papa di Lepanto, della Controriforma e della messa in rito tradizionale. A cui, quando posso, cerco sempre di assistere.

Al Ghislieri si entra e si rimane soltanto per merito. Avrà avuto ottimi voti...

Allora bisognava completare gli esami entro la sessione autunnale mantenendo una media non inferiore al 27. Altrimenti si perdeva il posto.

Goliardia e nonnismo.

Esatto. Tra settembre e dicembre, all’inizio dell’anno accademico, le matricole impazzivano. Poi si organizzava una festa che segnava anche l’epilogo di quella fase di oppressione da parte degli anziani e le cose miglioravano un po’.

Anche lei vittima?

Certo. Ho subito di tutto. Da esaurimento nervoso. Anche se poi, da studente “anziano”, mi sono rifatto.

Poi la laurea e l’Esercito.

Sono entrato alla scuola allievi ufficiali medici di Firenze nel 1971. Poi chiesi di poter prestare servizio nei parà. Dopo il corso a Pisa venni trasferito come sottotenente a Livorno, dove fui assegnato a seguire in attività il battaglione sabotatori paracadutisti, quello che oggi è il Reggimento d’assalto incursori Col Moschin, reparto di punta delle forze speciali. Oltre ai lanci ho seguito attività in montagna, che è rimasta la mia passione, e in mare; ricordo un raid di sopravvivenza di otto giorni sui gommoni tra Elba e Montecristo. Al congedo il comandante Rossi mi consegnò un diploma di “sabotatore honoris causa”.

Come mai proprio i paracadutisti?

A Pavia avevo già preso il brevetto civile, feci domanda anche se ci vedevo poco. Soffrivo di una miopia che con il tempo, per fortuna, è andata migliorando.

E la presero comunque?

Lo devo alla magnanimità del colonnello medico che mi visitò. Pensi che qualche giorno prima, tramite un infermiere, ero riuscito a procurarmi una tavola ottometrica uguale a quella che si utilizzava per la visita. Mi ero imparato a memoria tutte le lettere di ogni linea.

E come andò?

Che quel colonnello si accorse comunque del difetto,ma fece finta di nulla.

Entrò al Sant’Anna subito dopo?

Un mese dopo il congedo, tramite concorso. Esordii come assistente di medicina, poi divenni aiuto e lasciai da direttore dell’unità operativa di diabetologia.

Il suo nome è associato anche al Calcio Como. Come nacque quella avventura?

Papà era stato medico sociale dal 1947 al 1972. Negli ultimi anni era stato affiancato dal collega Pietro Pizzala, io subentrai nel 1975, l’anno della promozione in A con Marchioro allenatore. Vissi sul campo anche le promozioni in A del 1980 e il grande salto dalla C alla A, ancora con Marchioro.

Che ricordi ha di quella dirigenza?

Rapporti umani eccezionali, clima e gestione molto familiari, un modello che nel calcio moderno sarebbe inapplicabile. Eravamo davvero molto legati, sia con il gruppo dei medesi della presidenza Tragni che con i comaschi delle presidenze Roncoroni, Beretta e Gattei.

E con i calciatori?

Ho avuto una bella e duratura amicizia con Roberto Melgrati, mancato di recente, ma anche con Fiaschi, Cavagnetto, con Fontolan, che vedo ancora spesso. Tutti coetanei. Un amico è anche Angelo Sguazzero, che era il preparatore. Con Marchioro, io e Angelo componevano un team in anticipo sui tempi. Si lavorava davvero in squadra.

E la politica?

Iniziai da assessore con la prima giunta Botta, poi l’allora vicesindaco Alessio Butti fu rieletto a Roma e io lo sostituii. Tra l’altro, fuori dalla politica ci lega da sempre una bella amicizia. Mi piace dire che Alessio è quasi il mio fratello minore.

Sempre iscritto? Prima Msi poi Alleanza nazionale?

In realtà no. Ero stato iscritto alla Giovine Italia da ragazzino, a 16 anni, quando la sede era ancora in via Indipendenza. Poi, dall’università più nulla. Fino alle elezioni amministrative del 1994.

Che rapporto aveva con Botta?

Carattere schivo, ma ci conoscevamo già da anni, io medico sportivo, lui presidente del Coni. Grande stima e fiducia reciproca. Lo ricordo sempre con affetto.

Quella prima giunta aveva un’agenda stracarica di progetti, alcuni – con il senno di poi – davvero in anticipo sui tempi. Tunnel del Borgovico, stazione unica... In realtà, alla fine di quell’avventura, non raccoglieste molto.

Iniziammo in un momento difficile, i vecchi partiti si erano dissolti, c’era grande entusiasmo per il “nuovo”; da una parte era un vantaggio, nel senso che attorno al tavolo di quella giunta ci sentivamo completi, come se non ci mancasse nulla. Dall’altra, in realtà, ci mancarono proprio l’appoggio, l’organizzazione e il sostegno dei grandi partiti.

La squadra?

Bruni, Formenti, Giuseppe Villani, Patrizia Maesani. Una squadra validissima. E poi Paolo De Santis: visione strategica e progettualità.

Fu vice anche di Bruni.

Con Bruni ebbi un rapporto diverso, non c’era ovviamente lo stesso legame che avevo avuto con Botta, ma fu un rapporto comunque molto corretto. In politica ho sempre cercato di interpretare il ruolo che sentivo appartenermi più di altri, che è poi quello del mediatore. Credo che un punto di incontro, se si vuole, si possa sempre trovare.

Rammarichi?

Beh, da assessore ai Servizi sociali avrei completato volentieri la rete periferica di assistenza attraverso i piani di zona con gli altri Comuni. Oggi c’è, ma ho la sensazione che sia una rete più burocratica che operativa.

Si parla sempre molto di asili nido.

Erano un gioiello dell’amministrazione. Funzionavano molto bene. Anche se costavano. Ricordo lo stupore del cavalier Catelli, che tramite l’Artsana ci dava una mano. Quando scoprì quello che l’amministrazione comunale pagava per ogni bambino si stupì: «Caspita – mi disse -: più della Bocconi». Però i nidi erano e sono strutture utilissime per le famiglie, di cui devono rappresentare un prolungamento, senz’altro non un succedaneo né un “parcheggio”. Possono anche essere uno strumento importante nella lotta alla denatalità.

Argomento delicato: il caso Vannacci.

Diciamo che alcune mie dichiarazioni al suo giornale sono state un po’ distorte.

In che senso?

Intanto non ho prestato servizio con lui, che è più giovane di me. L’ho conosciuto, questo sì, visto che anni dopo ha comandato il battaglione in cui avevo prestato servizio anch’io. Ho detto semplicemente che condividevo buona parte del suo pensiero, ma è passato un messaggio machista e omofobo nel quale non mi riconosco. Peraltro si è arrabbiato anche Giuseppe Rondinelli, deejay radiofonico che stimo molto e con il quale collaborai a lungo al tempo in cui mi occupavo di politiche giovanili. Mi è dispiaciuto.

Ma quindi qual è il suo pensiero?

Guardi, bisogna entrare nella mentalità militare, perché Vannacci questo è: un militare. Ragiona a schemi, interpretando la normalità da un punto di vista statistico. Questo significa che la normalità, in ambito statistico, è la maggioranza, senza con questo voler sostenere che un omosessuale sia un “anormale”. Lo è soltanto da un punto di vista statistico. Dopodiché ognuno è libero di vivere la sua vita come vuole, ci mancherebbe. Ripeto: mi è dispiaciuto che con Rondinelli sia nata questa incomprensione.

Lei è stato membro di Gladio. Ci racconta come funzionava?

Era un’organizzazione clandestina dormiente che si sarebbe dovuta attivare nel caso in cui le forze armate del Patto di Varsavia avessero invaso l’Italia. Nasceva sul modello della resistenza francese, una resistenza in parte preorganizzata, basata sull’assunto che l’unico mezzo per contrastare o ritardare l’invasione di un nemico decisamente più forte è quello di azionare una rete preesistente e preorganizzata.

All’epoca i timori erano soprattutto legati al confine est.

E infatti la gran parte dei componenti di Gladio provenivano dal Triveneto, anche se poi negli ultimi anni il baricentro degli arruolamenti andò spostandosi un po’ più verso sud, sull’onda dei timori legati all’avanzata del potere di Gheddafi in Libia.

Come funzionava l’addestramento?

C’era una base, in Sardegna, vicino a Bosa. All’inizio venivamo richiamati attraverso i distretti militari, poi qualcuno cominciò a domandarsi perché mai alcuni di noi fossero richiamati tanto spesso e allora, per maggiore sicurezza e per garantire la riservatezza necessaria, si passò alle telefonate. Ci chiamava il Sismi, direttamente a casa. In caso di convocazione bisognava prendersi qualche giorno di ferie e partire. Io in famiglia raccontavo che dovevo tornare al reggimento per un periodo di addestramento.

La politica sapeva?

Beh, Cossiga, Andreotti sapevano senz’altro. Pensi che alla base, nella sala in cui si trascorreva il poco tempo libero a disposizione, campeggiava un biliardo con una targa: “Dono del presidente del Consiglio Giulio Andreotti”.

Eppure li segreto resistette fino alla pubblicazione dei celebri elenchi.

È il grande, vero “mistero” di Gladio... Cioè come sia stato possibile che in quasi quarant’anni nessuno ne abbia fatto mai menzione, neppure con la moglie o con la fidanzata, peraltro in un Paese come il nostro. Una cosa davvero poco italiana.

E lei non ne parlò con sua moglie?

Io avevo risolto il problema facendola reclutare come fiancheggiatrice e facendola partecipare a una operazione sotto copertura.

Come funzionavano le operazioni?

Gladio era, per così dire, la “versione” italiana di un progetto che in realtà coinvolgeva molti altri Paesi dell’Europa occidentale, con i quali si collaborava. Per quanto simulate, le nostre operazioni dovevano essere condotte in totale clandestinità, come se davvero ci fossimo trovati in territorio occupato. Eravamo provvisti di un tesserino chiuso che avremmo dovuto consegnare alle forze dell’ordine che per sventura ci avessero fermato. C’era scritto chi contattare, ma a quel punto l’operazione sarebbe stata da considerarsi fallita.

E con sua moglie come finì?

Che quando sul Corriere uscirono gli elenchi degli agenti appartenenti all’organizzazione, il suo nome apparve ancora prima del mio.

Poi lo scioglimento.

Sì, con una lettera dell’allora capo del Sismi, l’ammiraglio Fulvio Martini, spedita alla vigilia di Natale del 1990: «Per ordine del governo la struttura è stata sciolta in data 27 novembre, pertanto alla ricezione della presente la signoria vostra deve considerarsi sciolta da ogni vincolo connesso con la predetta struttura. Viene quindi a cessare ogni forma di riservatezza... Il servizio la ringrazia per la consapevole disponibilità offerta nella possibile prospettiva di un compito legittimo e generoso nella malaugurata evenienza di una occupazione militare dell’Italia».

Cessa ogni forma di riservatezza…

Incredibile, vero? Eravamo centinaia in tutto il Paese. E per quarant’anni nessuno aprì mai bocca.

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