Pediatra per 40 anni a Como: «Mi chiamano “zia Roby”. Il mio segreto? L’ascolto»

L’intervista Roberta Marzorati è storica pediatra di famiglia, ora prossima alla pensione: «Oggi molti più casi di autismo»

Dopo più di quarant’anni di visite nel suo ambulatorio di pediatria Roberta Marzorati va in pensione. Questa stimata dottoressa ha iniziato la sua lunga carriera esattamente il 22 novembre del 1983. Quindi poco dopo la nascita della pediatria di famiglia, una pediatria che adesso inizia a mostrare i segni di un progressivo affaticamento, come tutta la nostra sanità.

Quale è stato il suo faro in tutti questi anni di attività?

Ho sempre cercato di confrontarmi con i genitori e i bambini. Abbiamo camminato insieme. Ho fatto tesoro di molti messaggi. Noi pediatri dobbiamo essere attenti alle diagnosi e alle cure, ma altrettanto alla serenità dei piccoli e all’ascolto dei grandi. Occorre parlare di ciò che gira attorno ai bambini, ai loro rapporti nella speranza siano tranquilli e felici.

E come sono i bambini di oggi?

I bambini sono sempre bambini. Forse negli ultimi anni ho incontrato molte più famiglie con i genitori separati. Un trauma a volte peggiore per i piccoli rispetto alle liti in casa. Questi allontanamenti causano insicurezza, ansia. Mentre i bambini devono avere una casa che sia la loro casa.

Sono più deboli?

No, le malattie sono sempre quelle, pandemie a parte. L’unica patologia che ho notato essere molto aumentata è il disturbo dello spettro autistico, questo sì. I casi si sono moltiplicati negli ultimi due decenni. Non so perché, forse per fattori ambientali, di certo non solo per la maggiore attenzione riservata da medici e famiglie.

I genitori sono cambiati?

Si è detto e scritto molto dell’insicurezza delle mamme e dei papà di oggi, ma non credo che le giovani coppie adesso siano più fragili. È vero che lo scenario è cambiato, hanno a che fare con una situazione economica più incerta, con lavori precari, con case più costose. Ecco perché sono forse più tesi.

Ascoltano i pediatri?

Io mi chiedo se i pediatri ascoltino i genitori. Solo con tanta disponibilità e senza fretta si riesce a fare diagnosi e a dare messaggi convincenti. Mamme e papà domandano spiegazioni, non accettano più in maniera supina. Se si riesce a dialogare rispettando le esigenze, anche quelle per cui fanno ricerche su internet, allora c’è una buona accoglienza.

Perché la chiamano “zia Roby”?

Molti anni fa una mamma al suo piccolo che piangeva durante la visita ha detto che non doveva aver paura, perché tanto a visitarlo c’era la zia Roby. Per molti quindi sono diventata una conoscente stretta, qualcuno di vicino, un volto familiare.

Quindi non è uno di quei medici freddi e distaccati?

Bisognerebbe esserlo, sì, ma io mi sono sempre lasciata coinvolgere e penso sia stato un bene. Sono stata accanto a loro nei momenti di gioia e in quelli di dolore.

Ci spiega chi è il “topino”?

È merito di un’altra mamma. Il piccolo aveva male alle orecchie e dovevo controllarle. A un certo punto allora ha detto al suo bambino che la zia Roby doveva vedere se dentro c’era un topino. Da allora ho sempre cantato la canzoncina del topino furbo e biricchino per cercare di rasserenare i bambini.

È preoccupata per quello che sta succedendo alla pediatria pubblica?

Il rischio coinvolge tutta la pubblica sanità, una sanità che come fiore all’occhiello aveva anche la pediatria di famiglia. Siamo stati uno dei primi Paesi ad offrire questo servizio mirato ed è chiaro che è uno strumento che va protetto.

Protetto dal declino?

Abbiamo già visto che i medici di famiglia non sono più sufficienti per rispondere a tutti i bisogni della popolazione. Anche tra noi pediatri l’età media è molto alta, fino ad ora, almeno in città, reggiamo l’urto. Ma per esempio negli ospedali gli specialisti di pediatria sono troppo pochi. Molti escono dai reparti, attratti più dai nostri ambulatori di libera professione.

La nostra sanità secondo lei può stare serena?

La riduzione dei medici e degli specialisti ospedalieri crea liste d’attesa che dal mio punto d’osservazione provocano una fatica reale. Cresce il ricorso al privato, ma anche nel privato ci sono gravi carenze e quindi dobbiamo correre ai ripari.

Come?

Togliamo subito il numero chiuso dalla laurea in medicina. Tanto i giovani senza vocazione non arriveranno alla fine del percorso. Adesso abbiamo bisogno di nuove leve.

L’Ordine dei medici è contrario...

Pazienza, alla sanità servono giovani.

A quali storie di pazienti è rimasta più legata?

Soprattutto alle storie di persone che alle spalle avevano problemi sociali, per le quali mi sono messa in gioco e che ho cercato di sostenere. Ho cercato di essere d’aiuto ai fragili, in tutti i sensi. E grazie a loro credo di aver ricevuto più di quello che ho dato.

Cosa farà da marzo?

Ci sono dei sogni da tirare fuori dal cassetto. Mi piacerebbe scrivere un romanzo. Salvando i segreti dopo tanti anni di esperienza ci sono storie che vedrei bene all’interno di un libro.

Basta politica?

Difficile dirlo, mi sono già impegnata in città durante i mandati di Stefano Bruni e Mario Lucini. È stato importante perché ho visto le cose da una finestra più ampia. Ho cercato di dare risposte alle famiglie anche per dei problemi pratici, non solo clinici. Con tanti genitori ho condiviso vere lotte. Mi ricordo la rotatoria di viale Giulio Cesare che è nata dalle istanze di persone arrivate nel mio studio. C’era stato un incidente, una vedova da aiutare, una raccolta firme. Con l’allora assessore Stefano Molinari, una persona che pur avendo idee diverse dalle mie era capace di ascoltare, ecco arrivare il rondò.

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