In Terra Santa nei giorni del dolore

Attualità Il tragico racconto di una terra lacerata nelle testimonianze di Miriam Bianchi e di Dominique de Bernardi

«È un dolore immenso quello che sto provando. Il dolore per chi è morto e sta morendo, da una parte come dall’altra. Il dolore per questa terra che è la mia casa».

Mentre Miriam Bianchi parla al telefono a Gerusalemme è domenica e suo figlio, di due anni, chiede con insistenza le sue attenzioni: sono giorni che non va a scuola, perché in città, da sabato 7 ottobre, molte cose sono rimaste sospese. «In qualche modo vivere a Gerusalemme significa da sempre fare pace con gli stati di tensione che ci sono: io sono qui da undici anni e li ho conosciuti, ma nonostante questo non si può che provare un dolore profondo di fronte alla tragedia. Io, da comasca trapiantata in Terra Santa, per questo luogo non sogno altro che la pace».

Non parla di Israele né di Palestina Miriam, che a Gerusalemme undici anni fa è arrivata come volontaria della Custodia di Terra Santa, per l’ordine francescano, la stessa realtà per cui ora lavora in un centro media che produce news sulla Terra Santa. Tutta: da Israele alla Palestina. Parla, invece, proprio con questi termini della sua casa, chiamandola Terra Santa. «Stiamo lavorando anche in questi giorni per produrre il nostro Tg settimanale, ma è più difficile e siamo rallentati perché i miei colleghi palestinesi che vivono dall’altra parte della città non possono passare da questa parte in questo momento».

Una città divisa

Gerusalemme est e Gerusalemme ovest, in mezzo la città vecchia, la città Santa. Una divisione che in piccolo riproduce la grande separazione che da 75 anni è la ragione di troppe morti proprio in quei luoghi che Miriam ha imparato a chiamare “casa”. Non piovono missili su Gerusalemme e, come racconta Miriam, da una settimana non suonano più le sirene. La percezione della tragedia umanitaria che si sta consumando lungo i confini meridionai del Paese, dove Israele tocca la Striscia di Gaza e dove l’orrore si è mostrato con la strage di israeliani a opera di Hamas e continua a mostrarsi con i razzi israeliani che piovono sui civili palestinesi, non può comunque essere più chiara di così: «Siamo in uno stato di guerra, questo va detto e va ricordato. Viviamo alla giornata».

Laddove vivere alla giornata significa essere costantemente testimoni di una pace possibile, di un’armonia che sa di quotidianità, che sembra sempre a portata di mano e che però, all’improvviso sfugge via, come sabbia tra le dita. Proprio come è successo all’alba del 7 ottobre. «Ieri, ma in realtà questo che sto per dire accade ogni giorno, sono stata in un supermercato dove la cassiera era ebrea e il commesso musulmano. La pace è possibile, è ciò che auguro a questo luogo che amo così tanto e a mio figlio. Ma parlarne oggi è difficile».

Quelle di Miriam sono parole molto simili a quelle usate da un altro comasco che da tre anni vive a Gerusalemme, Dominique de Bernardi. «Oggi ho accompagnato mia moglie a donare il sangue - racconta in un video messaggio - Tante persone stanno donando in queste postazioni che possono ospitare fino a cinquanta letti: il sangue prelevato dà la possibilità di salvare circa dodicimila persone».

La convivenza? È possibile

Ma mentre pensa a come aiutare chi soffre, Dominique sottolinea qualcosa di fondamentale per comprendere la quotidianità di chi vive in questi luoghi, qualcosa che anche dalle parole di Miriam trapela con forza: «Nella zona di Gerusalemme dove risiedo, viviamo fianco a fianco con persone di religione musulmana, nel caffè che frequento ogni mattina ci sono arabi ed ebrei: è possibile vivere insieme». Eppure parlare di armonia e di pace, oggi, mentre i morti continuano ad aumentare, è molto complesso. Così occorre scavare, tornare indietro con la memoria, ricostruire il senso di una terra che, come altre volte accade negli altri racconti raccolti per questo numero di Diogene, tanti preferiscono chiamare Terra Santa, con un nome che unisce.

«Quando viaggio tra Israele e la Palestina, in luoghi di vitale importanza per la mia fede cristiana, come Gerusalemme e Betlemme, è sempre molto emozionante vedere le targhe del Gruppo turistico rebbiese, un club di viaggi in Terra Santa fondato da mio papà, Mario Bianchi. La gente qui sa chi è e questo mi riempie di orgoglio. Oggi la Terra Santa è casa mia, ma quando vedo queste testimonianze comasche mi rendo conto che c’è anche un po’ della mia vecchia casa in questa nuova casa e viceversa, come ha dimostrato la presenza dell’abuna Johnny Abu Khalil a Como, nei giorni scorsi».

Il riferimento è a un prete palestinese che vive e opera nel nord di Israele e che si trovava in questa settimana difficilissima per il suo popolo e per il popolo israeliano a Como, nell’attesa di poter tornare presto a casa. La stessa da cui Miriam e Dominique si raccontano.

«Andarsene? Non è un’opzione - commenta Dominique - questa è casa nostra e, nonostante tutto, qui ci sentiamo ancora al sicuro. Anche se va detto che il dolore è grande. Lo si vede camminando per strada, lo si vede sui volti delle persone: questo non è uno scontro di religione, ma una tragedia senza pari i cui riflessi si leggono nella tristezza comunitaria che sta colpendo tutti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA