Alfonsina e il bicicletto, “L’Ordine” speciale sui pionieri del ciclismo e del cicloturismo

Cento anni fa la prima donna al Giro d’Italia e il primo italiano in trionfo al Tour de France, Ottavio Bottecchia, misteriosamente ucciso tre anni dopo. In questo numero cominciamo a pubblicare a puntate anche il libro inedito nel nostro Paese dei primi cicloturisti giunti sul Lario nel 1898

Quando la parità di genere corre sui pedali. Lo spunto per questo numero speciale de “L’Ordine”, dedicato ai pionieri del ciclismo e del cicloturismo, sono i cento anni trascorsi dal 10 maggio 1924, quando alla partenza del Giro d’Italia a Milano spuntò una donna. Si chiamava Alfonsina Morini, ma è passata alla storia con il cognome (programmatico) del marito, Luigi Strada, un meccanico e cesellatore che l’aveva sempre sostenuta nella passione per le corse - in occasione delle nozze, nel 1915, le aveva regalato una bici da competizione - fino a quando nel ’24 era finito nel manicomio di San Colombano al Lambro, dal quale non uscì più. La storia di questa prima ciclista italiana è un romanzo. E visto che qualcuno lo ha scritto, vi consigliamo di leggerlo: “Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada”, pubblicato nel 2004 da Ediciclo e ristampato nel 2023, in previsione dell’anniversario ormai prossimo. Quest’anno, tra l’altro, ricorre anche il decennale della morte del suo autore, Paolo Facchinetti, direttore del “Guerin Sportivo” tra il 1990 e il ’91.

Proprio al “Guerin Sportivo”, dopo aver tagliato il traguardo di Milano il 1° di giugno del ’24, ultima e piena di escoriazioni ma fieramente indomita, Alfonsina rilasciò la sua dichiarazione più celebre: «Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono... un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa 10 lire al giorno. Ad Aquila avevo raggranellato 500 lire che spedii subito e che mi servirono per mettere a posto tante cose. Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene».

Nel suo libro Facchinetti chiarisce che la bambina in collegio non era una figlia, bensì una nipote, ma Alfonsina amava i nipoti come se fossero i figli che non aveva potuto avere. Le 500 lire le erano state donate dai lettori della “Gazzetta dello sport”, parte della schiera di sostenitori che si era ingrossata tappa dopo tappa, inducendo gli organizzatori a non estrometterla dalla corsa, nemmeno dopo che a Perugia era finita oltre il tempo massimo.

Alfonsina, emiliana trasferitasi a Milano per inseguire il sogno del ciclismo, ha un legame forte anche con il Lario: la gara in cui si rivelò alla nazione - sebbene nel 1911 avesse già stabilito il record mondiale di velocità femminile: 37,192 km all’ora - è stata il Giro di Lombardia del ’17, che transitò da Como, Erba, Lecco e Merate. E al Santuario della Madonna del Ghisallo, patrona dei ciclisti, è conservata una sua bici del 1954, epoca in cui gestiva un negozio/officina a Milano con il secondo marito, Carlo Messori. Rimasta di nuovo vedova nel 1957, la “Signora del Giro d’Italia” passò a un’altra “due ruote”, non più a pedali bensì a motore: una Guzzi 500, fiore all’occhiello dell’azienda mandellese. Morì colta da un infarto mentre la metteva in moto, il 13 settembre del 1959. Aveva 68 anni.

Un’altra “questione di genere” si pose al debutto in Italia, attorno al 1885, di quella che in Inghilterra era chiamata “safety bike” e in Francia “bicyclette de sécurité ”, ovvero la bici moderna, dotata di ruote di dimensioni all’incirca eguali, in cui finalmente i ciclisti potevano mettere il piede a terra.Da noi questo mezzo venne pubblicizzato come “bicicletto”. Un appassionato della prima ora fu Giacomo Puccini, di cui pure ricorre un centenario importante, quello della morte: «T’avverto che ho preso un bicicletto! ma pagabile a rate mensili », scriveva il 18-7-1893 all’economo di Casa Ricordi Cesare Blanc, dopo che il trionfo della “Manon Lescaut” gli aveva permesso di togliersi qualche “capriccio”. Ma due anni dopo, al cognato, suggeriva: «Se vuoi la bicicletta, scrivimelo che ti posso procurare un buon affare». La “due ruote” aveva già cambiato genere, non per decisione di un poeta, come era stato per l’automobile che D’Annunzio volle “femmina”, bensì per adeguarsi ai cugini d’Oltralpe.

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