La cura dell’Aids, un “miracolo”
della scienza

Alessandro Aiuti ripercorre in un libro la storia delle terapie geniche che hanno permesso di contrastare l’Hiv. La ricerca continua e sono in corso sperimentazioni su alcune forme di tumori in sinergia con Fondazione Telethon

Senza dubbio l’Hiv oggi non rappresenta più la “peste del secolo”, un’immagine che ne caratterizzava i contorni fino ad un paio di decenni fa. Pochi, però, la associano alle moderne terapie geniche, nonostante proprio grazie alla ricerca scientifica sull’Hiv - a cui hanno contribuito molti scienziati e medici italiani - si siano potuti sviluppare moderni farmaci di precisione.

L’intera vicenda - magistralmente raccontata nel libro “La cura inaspettata”, di Alessandro Aiuti e Annamaria Zaccheddu (Mondadori, 2023) - è relativamente recente, a partire dai primi casi dell’estate del 1981 fino ai successi terapeutici degli ultimi anni.

La storia è raccontata da chi l’ha vissuta sin da bambino ed è ora in prima linea nella ricerca. Il professor Aiuti è vice-direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica di Milano e direttore dell’Unità operativa di Immunoematologia pediatrica dell’Irccs Ospedale San Raffaele, ottimamente accompagnato nella narrazione dalla capacità comunicativa di Annamaria Zaccheddu, biotecnologa e responsabile della comunicazione scientifica della Fondazione Telethon.

Nel libro si incrociano personaggi come Chatwin e “Magic” Johnson con il film “Philadelphia”, o le vicende di Nureyev e di Freddie Mercury.

Inizialmente, un ruolo chiave è quello del padre di Alessandro Aiuti, Fernando, medico specializzato in malattie infettive e immunologia clinica, punto di riferimento in Italia per i suoi studi pionieristici su Hiv e Aids, da molti ricordato con l’immagine del bacio dato nel 1991 all’attivista Rosaria Iardino, allora sieropositiva da oltre sei anni, come risposta alle troppe “fake news” che circolavano su questa malattia.

Se ad oggi si contano oltre 84 milioni di persone che si sono infettate con Hiv, di cui quasi la metà decedute a causa di complicanze legate all’Aids, la terapia antiretrovirale combinata ha ridotto drasticamente il numero di nuove infezioni, passando da 3,2 milioni nel 1996 a 1,5 milioni nel 2021, mentre la mortalità è diminuita di quasi il 70 per cento. Grazie alla ricerca di base e alle conoscenze sul metodo di infezione dell’Hiv, oggi abbiamo farmaci sicuri ed efficaci per il trattamento di malattie altrimenti incurabili, oltre a diversi farmaci che garantiscono alle persone positive all’Hiv un’aspettativa di vita simile alle persone sieronegative.

Di questo libro - che tutti i medici dovrebbero leggere per capire l’importanza della passione per il proprio lavoro - parliamo con gli autori, Alessandro Aiuti e Annamaria Zaccheddu.

Professor Aiuti, suo padre Fernando rappresenta la storia della ricerca sull’Hiv e l’Aids in Italia. Nel libro lei racconta di quando suo padre per una notte tenne la prima provetta contenente il virus che gli era stato portato dall’America nel vostro frigorifero di casa, fra insalata e formaggio. Come ricorda oggi quell’evento?

A. Qualcosa che potrebbe sembrare banale, ma è in realtà essenziale, perché in quel momento era uno strumento di studio e di ricerca. Era un momento in cui il virus era stato da poco identificato ed era indispensabile poterne avere accesso. Da oltre due anni se ne parlava, rimanendo pur sempre qualcosa di molto elusivo. Dal mio punto di vista personale significava il coinvolgimento a tutto campo di mio padre, che si portava il lavoro a casa, e la sua passione per la ricerca, uniti al desiderio di essere sempre avanti; compresa la possibilità di iniziare a fare diagnosi su pazienti sospetti di essere sieropositivi.

Per quegli anni fu anche un grande comunicatore, spesso senza mezzi termini. Mi riferisco al famoso bacio: che memoria ha di quel gesto simbolico che molti ancora ricordano?

A. La comunicazione di mio padre era sempre molto diretta, oltre al fatto che riteneva essenziale adeguarsi a chi lo ascoltava. In questo caso l’immagine che è rimasta scolpita nella memoria di tutti. Scelse di fare questo gesto forte con l’intento di comunicare in maniera efficace qualcosa di importante, che altrimenti non avrebbe avuto lo stesso risalto. In famiglia fummo sorpresi del suo coraggio, perché andò oltre quello che ci aspettavamo. Dopo l’iniziale titubanza, per il sospetto che fosse andato un po’ sopra le righe, capimmo che in realtà con quel gesto aveva colto nel segno.

Z. Da comunicatrice posso dire che, rileggendo le interviste rilasciate da Fernando Aiuti e i libri che ha scritto, lui era il sogno di qualsiasi giornalista: era una persona molto competente, sintetica ed efficace, senza peli sulla lingua. I messaggi che dava erano esattamente quello che le persone avevano bisogno di sentirsi dire. Oltre a essere una persona che non diceva mai no era addirittura proattivo; lui stesso chiamava i giornali per dire “guardate che sta succedendo questo”. Aveva interiorizzato il fatto che in quel periodo drammatico, in cui non si poteva fare altro, la comunicazione aveva un ruolo preventivo. A questo scopo, usava i media in un modo assolutamente moderno ed efficace.

A. In merito a questo fatto, ricordo che recentemente ero a Rimini per un congresso e salendo su un taxi l’autista, al sentire il mio cognome, si girò e mi chiese: «Ma suo padre è quello del bacio?».

Dottoressa Zaccheddu, sono tutti ingredienti per una storia bellissima da raccontare, un libro già scritto insomma?

Z. Fu nel 2021 che, parlando con Alessandro, gli dissi: «Con la tua storia personale, non hai mai pensato di scrivere un libro?». È iniziata così, quando ha accettato di raccontare questa bellissima storia, che racchiude tanti aspetti personali relativi alla nascita della terapia genica.

E poi avvenne che “l’allievo ha superato il maestro”. Senza dubbio gli spunti in famiglia non mancavano, dai libri che si trovavano ovunque per casa agli articoli scientifici. Ma anche le frequentazioni, come Gallo e Montagnier, che venivano a cena da voi. È nata così la passione per la medicina?

A. Tutto questo mi ha influenzato in modo positivo, trasmettendomi la passione per la ricerca grazie ai racconti che mio padre mi faceva, che da sempre mi hanno affascinato. A partire dall’immunologia, il campo in cui lui lavorava. Spesso quando ero bambino mi portava persino ai congressi: chiaramente non capivo tutto, ma mi era chiaro che quelle cose mi affascinavano. La ricerca e la scoperta, unite al fatto di documentarsi sempre. Lo vedevo prepararsi prima dei suoi interventi, sempre alla ricerca delle fonti, così da essere sicuro di quello che diceva. Partendo da tutto questo ho capito che, ad un certo punto, avevo bisogno di trovare la mia strada. Scelsi di farlo andando all’estero, così da iniziare il mio percorso individuale. Avere un padre del genere vuole senza dubbio dire avere un maestro, un esempio, ma anche una persona che può essere ingombrante.

Il suo percorso, cosi come quello di suo padre, hanno caratterizzato due fasi essenziali della terapia. Suo padre più finalizzato alla ricerca di una cura per l’Hiv, lei ad una terapia basata sull’uso di virus come Hiv. Come si riassumono questi 40 anni, che hanno portato alla nascita della terapia genica?

A. La prima parte, quella degli anni ’70-’80, era propedeutica e più legata allo sviluppo di un concetto; alla fine degli anni ’80 si iniziano a sviluppare degli strumenti tecnologici per cominciare a trasferire geni, come ad esempio i vettori virali. Questi vengono per la prima volta utilizzati nell’uomo all’inizio degli anni ’90, quando ci fu una vera e propria svolta e si iniziò a trattare i primi bambini Ada-Scid in Italia con Claudio Bordignon, e in America con Michael Blaese. Per la prima volta si utilizzano questi vettori per trasferire geni. L’Ada-Scid è stata la prima patologia e si può considerare una apripista, ancora oggi. All’inizio del 2000 la terapia genica si è dimostrata essere valida anche senza essere associata. Non fu un percorso senza difficoltà e scetticismo ma nonostante questo nel 2009 in un articolo sul “New England Journal of Medicine” potemmo affermare che questo tipo di terapia era veramente efficace e sicura anche a lungo termine.

Un percorso non facile, quindi?

A. Ci furono tanti momenti con grandi risultati, ma anche tanti momenti difficili, con problemi legati alla sicurezza o alla mancanza di investimenti. La terapia stessa non fece mancare i momenti difficili, anche per il fatto che essendo una terapia sperimentale non è efficace in tutti, oltre al fatto che alcuni pazienti non possono avere accesso a questo tipo di cure. Nonostante questo il messaggio che deve passare è che i momenti difficili non devono comunque scoraggiare. Vanno superati ripartendo e ragionando su come trovare delle soluzioni.

Z. Nel libro abbiamo anche provato a restituire a chi non lavora nel campo della ricerca una visione realistica, meno edulcorata, senza per questo togliere la speranza. Non c’è stato bisogno di inventare nulla: semplicemente abbiamo raccontato il lavoro di tante persone. Chi fa ricerca sono persone e anch’esse non sono scevre da sentimenti come frustrazione, invidie, difficoltà. Lo scopo era anche quello di restituire la realtà e la quotidianità alla base di questi risultati eccezionali.

Ad un certo punto nel libro si racconta di come lei andasse di persona a fare i prelievi di sangue ai bambini, come in Venezuela o in Colombia, solo per citare due esempi. Come ricorda quel periodo?

A. Eravamo davvero un piccolo gruppo all’inizio, e di fatto ognuno faceva un po’ tutto. Per me era molto importante mantenere il legame con le famiglie, avere tutte le informazioni e soprattutto continuare a seguirli nel tempo, perché le informazioni su queste terapie sperimentali all’inizio erano poche. E poi, oltre all’aspetto professionale, si conosce meglio la famiglia e il bambino al di fuori dell’ambito medico, oltre agli usi di queste persone. Tutto ciò rafforza molto il legame con le famiglie che sono venute a Milano e continuano a farlo. Spesso rientravo da viaggi molto lunghi non solo con le provette ma anche con dolci o regali; un’esperienza bellissima, oggi svolta da un’infermiera, che noi chiamiamo infermiera volante.

Nel 2016 viene approvata la prima terapia genica grazie anche all’unione del lavoro fatto al San Raffaele e da Telethon con una grande azienda come Gsk. Un passaggio fondamentale.

Z. Il nostro direttore generale, Francesca Pasinelli, si è resa conto che certi risultati così importanti sarebbero rimasti solo sperimentali se non si fosse fatto qualcosa per rendere questa terapia più facilmente disponibile ai pazienti. Inoltre era determinate che i dati fossero raccolti in modo tale che le autorità regolatori potessero accettarli per il via libera.

A. C’è da dire che, per un ricercatore accademico, è un altro mondo. Innanzitutto abbiamo potuto cambiare passo perché c’erano più risorse, e metodologia perché la visione era a lungo termine, ma anche mentalità. Mentre per un ricercatore l’obiettivo è quello di pubblicare un risultato e curare un paziente, in quel momento c’era quello di sviluppare un farmaco e portarlo sul mercato, così da renderlo fruibile. Questo senza dubbio è anche lo scopo di Telethon. L’insieme di tutto questo ha fatto sì che le competenze necessarie per l’intero percorso fossero finalmente disponibili, dall’esperienza scientifica e tecnologica alla fase preclinica fino allo sviluppo e produzione industriale.

Telethon ha avuto diverse volte un ruolo chiave nell’intero processo; uno unico, che è doveroso citare, è senza dubbio il gruppo di accoglienza per i pazienti, a Milano.

Z. Quando gli studi, e i pazienti, sono aumentati, con i tanti follow-up l’aspetto logistico poteva essere un deterrente, come l’idea di ritornare più volte, spesso da paesi lontani. Abbiamo così iniziato questo progetto, che è davvero un fiore all’occhiello.

Oggi le terapie geniche si stanno diversificando. Da una possibile cura dell’HIV stesso allo sviluppo di terapie oncologiche. Dove siamo arrivati?

A. Lo studio di terapie per l’Hiv è stata portata avanti da vari gruppi ma ad oggi ancora non si è dimostrata essere in grado di perseguire l’obiettivo finale, che è quello di eradicare il virus, visto che ormai la terapia antivirale controlla il virus. Molteplici approcci al momento non hanno ancora portato a risultati come ad esempio rendere le cellule resistenti al virus. Sul versante oncologico, invece, i risultati sono straordinari, almeno per una certa tipologia di cancro. Infatti, si è oggi in grado di rendere le cellule del sistema immunitario molto più potenti, soprattutto contro leucemie e linfomi. I pazienti sono molto più numerosi rispetto alle terapie rare e ci sono molti investimenti e ricerca. Al contrario, per i tumori solidi la questione è molto più complessa.

Z. Le malattie rare sono migliaia, e non si può avere la pretesa di affrontarle tutte da soli. Una domanda molto difficile da rispondere che spesso ci arriva è “perché non studiate la mia malattia?”. Cerchiamo sempre di partire da dove si hanno maggiori opportunità di riuscita, da dove è più facile aggredire un problema. Molto dipende dai meccanismi alla base di queste patologie: Telethon sta cercando di affrontare diverse malattie partendo da quelli che sono i punti comuni, quindi agendo in parallelo. Questo permette di ridurre tempi e costi e aumentare la possibilità di riuscita.

Professor Aiuti, ci ha accennato a qualche novità in cui Ada-Scid c’entra ancora una volta. Di cosa si tratta?

A. Per quanto riguarda l’accesso alle cure, una charity come Fondazione Telethon ha preso in carico la terapia genica, per evitare che venisse abbandonata dalle farmaceutiche e continuare a renderla fruibile ai pazienti, prendendosi la responsabilità della produzione e della distribuzione. Questa terapia, che ha oltre 20 anni e rischiava di essere abbandonata, è oggi invece mantenuta all’interno di un contesto no profit.

Qual è il futuro di questi approcci terapeutici?

A. Ci sono diversi ambiti relativi alla ricerca che riguardano approcci quali gene-editing o farmaci a mRNA che aprono nuove prospettive. Avere più strumenti, tuttavia, non vuol dire abbandonare qualcosa che funziona ma, anzi, le nuove tecnologie ci consentiranno di affrontare malattie che oggi non hanno una cura. Anche se la ricerca va avanti dobbiamo però ricordare sempre che il razionale scientifico deve essere il timone, senza cadere in false illusioni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA