«Attacco al museo a Tunisi. Noi vivi per caso»
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La coppia di Torno racconta come si è salvata dagli spari. Nel video esclusivo di “Repubblica” compaiono anche i due comaschi

«Se non avessimo iniziato la visita dal secondo piano, adesso saremmo morti». Franco ed Elena sono rientrati nella loro casa di Torno, ma il rumore degli spari, il terrore durante la fuga in silenzio da una scala secondaria, il pianto di una bambina polacca a cui è stata uccisa la mamma, sono ricordi che non possono cancellare. I coniugi comaschi, 76 e 70 anni, mercoledì all’ora di pranzo erano a Tunisi, nel museo del Bardo. «La mattina - raccontano Franco ed Elena, sul tavolo un po’ di fotografie e l’opuscolo del museo che avevano preso all’ingresso - avevamo visitato la medina, poi un centro di produzione di tappeti e uno di profumi. Poi il Museo. Una volta entrati, la guida ha deciso di iniziare la visita dall’alto, dal secondo piano. Ed è stata la nostra fortuna». Il marito, Franco, ha scattato le prime foto (la prima alle 12.03) ai mosaici sulle scale e, all’ultimo piano, a quelli incastonati nei muri. «Eravamo nella prima sala - racconta la signora Elena - e abbiamo sentito due colpi, come due petardi. Subito dopo una signora urlava “sparano, sparano”. La guida ci ha fatto segno di spostarci e, a quel punto, abbiamo sentito una serie di raffiche. Mitra». Anche Franco, che quel rumore lo ricorda dai tempi del militare, non ha più avuto dubbi. Erano le 12.19, come segna l’ultima foto. «La guida ci ha fatto correre nel salone di fianco - prosegue la signora Elena - e ha aperto una porta dove c’erano delle scale. “Scendete, presto” continuava a dire e ci faceva segno di stare zitti. Ho iniziato a scendere le scale, ma dietro di me non vedevo più mio marito e allora stavo tornando indietro a cercarlo e, mentre ero alla porta, ho visto un uomo che correva verso di noi. Poi è caduto a terra. Non so se è stato colpito dagli spari, che erano sempre più vicini, o se è inciampato nelle protezioni dei mosaici. Mi sono sentita prendere per un braccio e tirare giù per le scale e, a un certo punto, ho visto lo sguardo di Franco, che in realtà era più avanti e che, non vedendomi, mi stava cercando. Sentivo delle urla». «Siamo arrivati a una porticina - aggiunge il marito - e siamo usciti in un giardino. Ci siamo messi tutti accovacciati e, con la guida, controllavamo che non ci fossero cecchini. Di corsa, angolo dopo angolo, siamo arrivati in una questura poco distante. Ci siamo contati. Eravamo in 30, inclusa la guida. Ne mancavano 15». In quel corridoio sono rimasti un bel po’. E da lì sentivano di nuovo gli spari, quelli del blitz delle teste di cuoio. Non sapevano nulla, ma ormai avevano capito che, di mezzo, c’era l’Isis. Ne erano certi. «C’erano armi dappertutto - raccontano - e una ragazzina polacca piangeva a dirotto perché diceva che sua mamma era morta. A un certo punto ci hanno detto che ci avrebbero trasferito e pensavamo ci portassero alla nave. Invece, verso le 15 ci hanno fatto uscire dal retro, in mezzo all’immondizia, e siamo saliti su un bus. Siamo arrivati in un’altra caserma. Era più grande: c’erano acqua, arance e mandarini. Verso le 17.30 è arrivato un altro pullman, con gli altri nostri compagni di escursione. Erano in 14, mancava una signora. Era rimasta ferita a una gamba e si trova ancora in ospedale». A quel punto il secondo trasferimento, verso la nave. «Quattro bus, due pieni e due vuoti. Ci hanno detto di chiudere le tende perché, se qualcuno avesse sparato, non avrebbe saputo in quale mezzi c’erano persone. E c’erano poliziotti di scorta». Elena e Franco si sono sentiti al sicuro solo verso le due di notte, quando la nave è salpata. Paura di altri attacchi. E del rumore di quelle raffiche di mitra che non riescono a cancellare.

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