Collina: «Como è incompiuta
Ecco perché è diventata brutta»

Como

In quanto artista - è pittore e scultore, oltre che insegnante di pittura, disegno e storia dell’arte - verrebbe la tentazione di definirlo “professionista del bello”.

Come può dunque sentirsi Giuliano Collina, “professionista del bello” nel degrado di Como? E che cosa propone per uscirne al più presto?

Da lei ci aspettiamo, come minimo, un lacerante grido di dolore per lo stato in cui è ridotta la città. Che cosa ne dice?

Gridiamo?

Mettiamola così: per me non è tanto questione di brutto e di bello. Preciso: brutto e bello convivono da sempre. Tra l’altro, il brutto è necessario al bello come termine di paragone. Senza, non disporremmo di alcun riferimento per proclamare la bellezza di una cosa rispetto a un’altra. Il brutto appartiene all’umanità tanto quanto il bello. Anche a Como, dunque, come dappertutto, convivono cose belle e cose brutte. Diciamo che, rispetto al passato prossimo, le seconde hanno guadagnato spazio. Non nego: sarebbe il caso di darsi da fare per recuperare un po’ di equilibrio ma, se stiamo parlando di scritte sui muri, buche nelle strade e cartacce per terra, mi pare che evitiamo di affrontare il vero problema.

Che invece sarebbe?

A Como mi pare brutto, molto brutto, tutto ciò, tanto, che è irrisolto. Mi sembra brutto che ci vogliano tempi biblici per affrontare e risolvere ogni cosa. Questi ritardi snaturano al punto li problemi che la loro origine diventa infine misteriosa. I grandi nodi irrisolti fiaccano il nostro entusiasmo di cittadini e sfigurano la personalità della città. Quando Virzì dice quel che dice del Politeama ha torto - cercava proprio un teatro dimesso e fatiscente: di che cosa si lamenta? - ma i comaschi possono dire la stessa cosa e avere ragione: il Politeama è una delle cose irrisolte della loro città. Un edificio di cui si è persa la funzione: non sappiamo a chi e a cosa potrebbe servire. Il suo stato rende impossibile ogni utilizzo: un teatro fatiscente non permette di avere una compagnia teatrale e senza compagnia teatrale non si fanno spettacoli e così via.

La soluzione sta dunque nel decidere che cosa fare e farlo?

Tante cose dismesse un tempo venivano riprese, oggi le si lascia andare. Facciamo l’esempio della Ticosa: è inutile fare tentativi più o meno a casaccio parlando di abitazioni e giardinetti. Quell’area va pensata come fosse una nuova Como: va da San Rocco al lago, è una superficie enorme e importante. Deve esserci un progetto altrettanto importante: come è possibile parlarne senza pensare, per prima cosa, a spostare il depuratore? Anche i giardini pubblici sarebbero da rifare ma mi fermo qui perché non desidero entrare nel merito delle singole questioni.

Eppure da qualche parte bisognerà pur incominciare...

Per esempio dal rimuovere una mentalità dannosissima eppure molto diffusa: la riscontro nei colti e nei meno colti, nei professionisti e negli operai, nei ricchi e nei poveri. Tutti sono d’accordo nel dire che costruire è in ogni caso un fatto negativo, addirittura nocivo. È un evidente sintomo di stasi sociale. Se nel Rinascimento avessero ragionato in questo modo, forse avremmo conservato qualcosa in più ma avremmo perduto grandi capolavori. Oggi invece domina la paralisi. Non è sempre stato così: agli inizi del Novecento c’era una grande voglia di ricostruire, di rinnovare.

Ma chi può restituirci questo slancio, secondo lei?

Siamo in un momento meraviglioso dell’architettura. Ci sono architetti che progettano cose ammirate da tutti. I ponti di Calatrava colpiscono chiunque percorra l’autostrada. Proviamoci anche noi: cerchiamo di fare le cose al meglio. Ricordo il contributo di Zambrotta per il lungolago: un’iniziativa generosa per la quale è stato persino mal sopportato. Ora, è chiaro che era solo una soluzione provvisoria: il lungolago di Como merita di più. Invece, non si intravede un progetto ambizioso: solo soluzioni spicciole, aggiustamenti. Non vogliamo correre rischi ma, senza rischi, non potremo mai arrivare all’eccellenza. Otterremo solo la mediocrità e la mediocrità, per definizione, è sempre brutta.

Ma cemento e “archistar” spaventano: per i costi, per l’ambiente...

Un progetto brutto non costa meno di un progetto bello. Como si ritrova in questo stato di incantamento dagli anni ’50 e ’60 quando, doverosamente, ha pensato più a restaurare che a costruire. Ma il cemento non è di per sé una cosa brutta: dipende da come lo si usa. L’architettura, altrove valorizzata e capace di trasformare nel profondo la socialità di un centro urbano, qui è vista con sospetto. Basta: è ora di aprire gli occhi.

Mario Schiani

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