Decapitato in Armeria
«Libero senza scuse né risarcimenti»

Aiutò Arrighi a liberarsi del corpo della vittima ma i giudici gli consentono di evitare il carcere. Parla la vedova: «Da lui mai neppure una lettera»

Ci vuol poco a riannodare il filo del tempo. «Tre anni e dieci mesi il primo novembre», ricorda Domenica Marzorati, ex moglie di Giacomo Brambilla, il piccolo imprenditore ucciso il primo febbraio del 2010 nel retrobottega dell’armeria Arrighi di via Garibaldi.

L’ennesima emorragia di una ferita mai rimarginata è conseguenza di una decisione assunta dal tribunale di sorveglianza nei riguardi di Emanuele La Rosa, ex titolare della pizzeria “La Conca d’Oro” di Senna Comasco, suocero di Alberto Arrighi, il nonno che lo aiutò a disfarsi del cadavere, prima assistendolo nella decapitazione poi - lui, non altri - chiudendo la testa nel forno salvo infine appiccicarci un cartello diventato celebre: «Non aprire, deve cuocere». Condannato a tre anni e cinque mesi di carcere - pena patteggiata l’antivigilia del Natale 2010 -, al netto della carcerazione preventiva (sei mesi), La Rosa ha ancora un debito con la giustizia di due anni e 11 mesi, ma in carcere non tornerà. L’alternativa? Tutti i giorni, da qui al 2016, dovrà prestare servizio in una struttura per l’assistenza agli anziani.

«Non covo sentimenti di vendetta, ma è ovvio che la concessione di questo beneficio sia fonte per me e per mio figlio di grande delusione e dolore - dice la signora Brambilla - Anche perché in questi anni non abbiamo mai ricevuto nulla, e non faccio soltanto riferimento a un risarcimento in denaro. Da La Rosa non abbiamo mai avuto neppure mezza parola di scuse, una lettera, due righe che esprimessero rammarico per quel che era capitato. Trovo che concedergli la chance di rendersi utile con gli anziani sia irriguardoso nei confronti nostri e di chi lo fa gratuitamente, ogni santo giorno senza dovere né pretendere nulla in cambio».

In realtà, dal punto di vista formale, almeno per ora La Rosa non deve nulla. Quantomeno: nessun giudice lo condannò mai a risarcire, liquidando la sua posizione penale con un patteggiamento che escludeva ogni sorta di ulteriore debito, e al quale la Procura concesse il suo imprescindibile assenso. Eppure, in quel «contesto di deteriore solidarietà familiare» (definizione dei giudici del riesame, che nel 2010 negarono l’anticipata scarcerazione di La Rosa), quello del suocero di Arrighi fu un ruolo chiave: «L’impressione - dicono allora Anna Maria Restuccia e Fabio Gualdi, gli avvocati di Domenica Marzorati e di suo figlio - è che i tribunali di sorveglianza non attribuiscano alle istanze risarcitorie delle vittime di delitti tanto efferati il peso che esse meriterebbero, benché uno dei requisiti per poter accedere a queste forme alternative di sanzione sia proprio l’avvenuto risarcimento del danno». Non è valso a nulla farlo presente anche al procuratore generale, che pure aveva promesso di porre la questione all’attenzione dei giudici. Per il tribunale La Rosa può evitare il Bassone.

Resta il nodo delle provvisionali, forme di risarcimento immediatamente esigibili, che anticipano eventuali pronunciamenti di un giudice civile (un procedimento è peraltro in corso). La sentenza di condanna a 30 anni emessa nei confronti di Arrighi, contemplava anche che l’imputato versasse 150mila euro a testa all’ex moglie e al figlio di Brambilla, e che ulteriori 300mila fossero da dividere tra la mamma, il papà Luigi - mancato per una brutta malattia nel novembre dell’anno scorso - e il fratello Gabriele. «In questi giorni ho pensato anche al dolore di mio suocero - conclude la signora Domenica - Ha sofferto moltissimo, senza avere avuto nulla in cambio». Per fortuna un sorriso, a chi gli vuol bene, lo regala il figlio di Giacomo, che oggi ha 16 anni e che ne aveva 13 quando rimase orfano del suo papà. Sta diventando un uomo, dice la mamma; vederlo crescere e saperlo forte le riempie il cuore.

Stefano Ferrari

© RIPRODUZIONE RISERVATA